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 2014  giugno 01 Domenica calendario

A MOSCA PER FINIRE IN UN GULAG BASTAVA UNA LETTERA ANONIMA


«Anonimka», la delazione firmata da mano ignota, è stata l’arma più letale del totalitarismo comunista. Ai tempi di Stalin era un biglietto per il Gulag e, in tempi meno feroci, poteva significare il licenziamento, l’espulsione dall’università o un umiliante iter di giustificazioni e indagini. In un sistema repressivo basato sullo spionaggio sfuggire al controllo era quasi impossibile, in Urss ci voleva un lasciapassare anche per entrare in biblioteca. Per chi era già stato presa di mira dai servizi come dissidente c’era tutto il pacchetto completo offerto dal Kgb, dai pedinamenti alle intercettazioni telefoniche, e alcuni dissidenti hanno scoperto solo anni dopo che nell’appartamento accanto era stata allestita una vera centrale d’ascolto, come nel film «Le vite degli altri». Ma anche per i comuni cittadini sovietici finire nella rete della delazione era questione di un attimo. Bastava una barzelletta politica, un’esclamazione di scontento, un brontolio sui (molteplici) guai della vita di tutti i giorni, e se nei dintorni c’era un orecchio indiscreto partiva l’«anonimka».
Nessuno ha mai saputo quanti fossero i soldati dell’armata dei delatori. C’erano quelli che lo facevano d’ufficio: gli uscieri, le ferocissime guardiane all’entrata di uffici e convitti, gli addetti condominiali, gli spazzini, i tassisti, le burbere «dezhurnaya» piazzate a ogni piano negli alberghi al solo scopo di monitorare le entrate, le uscite e soprattutto le compagnie degli ospiti. Ma da quelli non c’era da aspettarsi d’altro e si cercava di stare attenti. Poi c’era la rete di informatori prezzolati, reclutati dal Kgb con lusinghe o ricatti per riferire sui propri colleghi e amici, soprattutto in ambienti di intellettuali. I più pericolosi però erano i volontari, quelli che scrivevano delazioni per passione, battitori liberi mossi da zelo ideologico o da interesse, e che spesso firmavano anche le loro denunce per poterne beneficiare. Si poteva venire denunciati dal vicino che così poteva ambire alla stanza che si liberava, dal collega che puntava alla scrivania della vittima, dalla fidanzata tradita, dall’amico invidioso.
L’«anonimka» non aveva bisogno di venire provata e poteva venire inviata al Kgb, alla polizia, al sindacato, alla cellula di partito, al superiore, che erano obbligati a procedere: cestinare una denuncia poteva rivelarsi molto pericoloso se il delatore l’avesse mandata a più indirizzi. Con l’apertura, molto parziale, degli archivi alcune vittime delle delazioni hanno scoperto di essere state spedite in Siberia dal migliore amico, da un commilitone come era successo ad Alexandr Solzhenitsyn, o addirittura dai parenti. E una volta tra le mani della polizia segreta, si diventava delatori a propria volta, per salvarsi la vita, per paura, sotto tortura.
La paura dell’orecchio indiscreto veniva assorbita fin da bambini, e la capacità di dire le cose giuste pensandone altre diventava quasi automatica già a scuola. Rilassarsi poteva essere mortale, il delatore poteva essere dovunque, a raccogliere le confidenze davanti a un bicchiere di vodka, e nulla era prezioso come un amico che segnalava agli altri un sospetto spione, di solito battendo con le nocche sul tavolo per indicare che quello è uno «stukach», «uno che bussa». Alla porta innominabile che tutti avevano paura di varcare.
Le «anonimke» furono abolite soltanto da Gorbaciov alla fine degli Anni 80: d’ora in poi una denuncia doveva essere formale e firmata. Ma le liste interminabili di quelli che rovinavano le vite degli altri sono sempre rimaste un segreto sepolto negli archivi.

Anna Zafesova, La Stampa 1/6/2014