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 2014  giugno 01 Domenica calendario

“TRA PROIETILI E URLA STRAZIANTI COSÌ QUELLA NOTTE SFIDAI I NAZISTI

[Intervista a William Peacock] –

«Alla mia età, ci penso praticamente ogni giorno. E prego ancora, ogni giorno, per tutti i compagni che non sono più tornati». Comincia così, con la voce spezzata, il racconto di William Peacock, l’uomo che visse tre volte. Lo sbarco in Sicilia, poi quello a Salerno, e infine la Normandia, Omaha Beach. Ogni volta beffando la morte, che viaggiava sempre sul suo Landing Ship Tank. Il mestiere del quartermaster William, infatti, era quello: pilotare un mezzo da sbarco in bocca al fuoco nemico, per scaricare sulla spiaggia i soldati. E non un LST qualsiasi, ma il numero 357, cioè uno dei più decorati nella storia della Marina militare americana. Settant’anni dopo, alla vigilia del viaggio che il presidente Obama farà in Normandia il 6 giugno per onorare gli eroi dello sbarco che piegò i nazisti, Peacock ci parla al telefono dalla sua casa del Maryland, per raccontarla lui questa storia. «Sono nato nel 1922, in Georgia, da una famiglia piuttosto povera. Lavoravo in una compagnia del gas, e la paga era così bassa che non sempre a cena riuscivo a riempirmi la pancia. Così, quando vidi che la Marina militare cercava reclute, mi arruolai. Feci l’addestramento di base, poi tre mesi di specializzazione in Rhode Island, e così divenni quartermaster. Per me era tutta un’avventura entusiasmante: pensate che per imparare le tecniche di sbarco ci mandarono alle Isole Solomon, un paradiso».
Non aveva capito che c’era la guerra?
«Sapevo che non era un gioco, ma tutto divenne più chiaro quando nel febbraio del 1943 ci dissero che dovevamo andare in Africa. Salpammo dal New Jersey, poi Bermuda, poi trenta giorni di navigazione per arrivare a Gibilterra. Ci assegnarono al porto di Misurata, in Libia, dove conoscemmo davvero la guerra. I tedeschi si stavano ritirando e ci bombardavano con gli aerei; a terra ci aspettavano i “Topi del deserto” inglesi, che stavano riprendendo la Libia dopo aver resistito a Tobruk e poi El Alamein».
Come seppe che dovevate sbarcare in Sicilia?
«Non lo seppi. Eravamo stati trasferiti a Biserta, e ci dissero che dovevamo prepararci ad andare in Grecia. Ma era una bugia, per spargere la voce sbagliata e imbrogliare i tedeschi. La notte fra il 9 e il 10 luglio del 1943, infatti, sbarcammo a Licata per l’operazione Husky».
Cosa ricorda di quella notte?
«La paura, che poi sarebbe diventata il ricordo ricorrente di tutte queste azioni. Il mio compito era tenere dritto il mezzo da sbarco, nonostante il mare e il fuoco nemico. Non si vedeva nulla, però, e navigavo quasi a naso».
Come vi accolsero?
«Licata tutto sommato fu l’operazione più facile. I siciliani poi erano stanchi del fascismo e ci salutarono come eroi. No, come amici, direi. Mi ricordo che ci portarono a vedere un posto dove facevano il nido le cicogne. Allora un mio collega le dipinse, per trasformarle nel nostro simbolo: le cicogne consegnano i bambini, e noi avevamo consegnato sicuri i nostri soldati».
Basterebbe come storia di una vita, ma era solo l’inizio.
«Tornammo in Africa, e il 9 settembre salpammo di nuovo per l’Italia. L’invasione dal sud era stata frenata, e noi dovevamo sbarcare a Salerno. Mi viene ancora la pelle d’oca, a pronunciare questo nome, perché fu un inferno. In Sicilia, al confronto, era andata bene, ma qui i nazisti non volevano mollare. Ricordo una pioggia di fuoco da non capire nulla, schegge e proiettili ovunque. Soltanto sul mio mezzo ci furono novanta feriti, incluso lo skipper, George Vaughn. Rimasto senza comandante, arrivai comunque sulla riva, ma non so ancora come».
Dopo due avventure così, uno non aveva il diritto di ritirarsi?
«Ma quello era il mio dovere. E poi volevo esserci, con i miei compagni, quando avremmo scacciato i nazisti».
E così, dopo Salerno, si trasferì in Gran Bretagna.
«Facevamo le esercitazioni tutte le notti. Una situazione terribile, di enorme tensione. Una volta rientrai nella sala motori, e trovai un collega impiccato. Si chiamava Ben, veniva dal Texas. Dicono che sua moglie aveva appena avuto un figlio, ma lui mancava da casa da oltre un anno... Si era legato una corda al collo e si era appeso a un ferro».
Come cominciò l’operazione Overlord?
«Sembrava un’esercitazione come le altre, ma quella notte non ci dissero di tornare indietro. Capimmo che facevamo sul serio quando i torpedo tedeschi colpirono due mezzi di fianco al nostro: era stato un puro caso che non avessero affondato noi. Sentivamo le urla dei superstiti, ma non potevamo fermarci: l’ordine era quello di proseguire fino alla spiaggia. Era logico, perché dietro di noi c’erano apposta le squadre di soccorso per occuparsi di loro. Io però quelle grida non le ho mai dimenticate: non essermi fermato è rimasto il più grande rimorso della mia vita».
Cosa ricorda dello sbarco?
«La paura, come sempre. Però, mentre avevo capito cosa stava succedendo ai colleghi affondati in mare, ad Omaha Beach non mi resi conto di nulla. Sbarcammo alle 4,40 del mattino, sotto un fuoco che sembrava un acquazzone di proiettili. Quando piove così non è che puoi stare ad evitare le gocce: fai il tuo lavoro, e speri che alla fine sarai ancora vivo».
E vivo rimase, per la terza volta. Come fu il ritorno a casa?
«Avevamo sconfitto i nazisti, finito l’orrore. Eravamo tutti eroi, la generazione più grande, e così ci trattarono. Io all’inizio passai nell’esercito per diventare ufficiale. Nei primi Anni Cinquanta feci anche l’istruttore dei soldati che andavano in Corea. Nel frattempo sfruttai il G.I. Bill, la legge per i reduci, e mi laureai in ingegneria elettronica. Mi sposai ed ebbi due figli. Eravamo pieni di entusiamo. L’America correva e la Guerra fredda non ci aveva dato tempo di respirare. Per un periodo fui trasferito anche in Italia. Quindi andai a lavorare per la General Electric, e poi passai alla Nasa, al Goddard Space Center. Mi occupavo di satelliti».
Le cose cambiarono negli Anni Sessanta?
«Per noi no, eravamo sempre la generazione che aveva vinto la guerra. Per il paese invece sì: l’assassinio di Kennedy, un veterano della Navy come me, e il Vietnam. L’America non era più quella in cui eravamo cresciuti».
Con Nixon i militari come lei finirono di essere popolari?
«Quello fu il momento più amaro della mia vita. Non per me, perché il rispetto nei nostri confronti è rimasto sempre intatto, ma per quei poveri ragazzi. Il Vietnam fu una guerra sbagliata, che probabilmente non avremmo mai dovuto combattere, però la gente che si sacrifica per il suo paese non merita mai di essere trattata in quel modo. Come soldato, che è stato sotto il fuoco nemico per difendere gli Stati Uniti e la libertà, ho sofferto per quei reduci che tornavano in un paese che li rigettava. E ho sofferto per l’America: una nazione può anche perdere una guerra, però non deve mai perdere la sua decenza e lo spirito con cui è diventata grande».
Cosa hanno fatto i suoi figli nella vita?
«Uno è diventato militare, ma grazie a Dio ha evitato la guerra. Attraverso lui, però, ho vissuto direttamente il dramma della sua generazione, fino a quando con la liberazione del Kuwait i nostri soldati hanno riconquistato l’onore e il rispetto della gente».
Gli ultimi interventi americani, in Iraq e Afghanistan dopo gli attentati dell’11 settembre, hanno generato polemiche che hanno spaccato il paese quasi come ai tempi del Vietnam. Lei come li ha giudicati?
«Io credo di aver visto tutto il peggio della guerra, e penso che si debba sempre evitare. Però ho visto anche la guerra sconfiggere il male assoluto. Posso solo augurarmi che non serva mai più».

Paolo Mastrolilli, La Stampa 1/6/2014