Federico Geremicca, La Stampa 1/6/2014, 1 giugno 2014
VELOCITÀ, FIDUCIA, DECISIONI ECCO LE SVOLTE DEL PREMIER
La battuta che mestamente, a mezza voce, circola tra i suoi avversari politici - ma ormai anche tra alcuni degli alleati - è più o meno la seguente: «Altri 100 giorni così, e siamo rovinati». L’escalation del resto, è impressionante: 15 dicembre 2013, segretario Pd; 22 febbraio 2014, Presidente del Consiglio; 25 maggio, cioè una settimana fa, 40% alle elezioni europee, una cosa che dalle parti del Pd - e dei partiti dai quali germinò - non s’era mai vista prima.
Ed è per questo, in fondo, che i primi cento giorni da premier di Matteo Renzi vanno osservati con una lente diversa dagli obiettivi programmatici rispettati e dai progetti annunciati e realizzati. Questa, infatti, è una chiave di lettura buona - naturalmente - per governi «normali»: mentre è evidente - lo era già dagli esordi, ma lo è diventato definitivamente col voto di sette giorni fa - che l’esecutivo del premier più giovane della storia repubblicana è tutt’altra faccenda, e come tale andrebbe giudicata.
La svolta copernicana imposta dal «rottamatore» alla rissosa ma sostanzialmente immobile politica italiana è tale che ridurla agli 80 euro, alle riforme elettorale e del Senato (per altro ancora da realizzare) o alle nuove norme in materia di lavoro, sarebbe non solo riduttivo ma deviante. E a ben vedere, la chiave di lettura di una affermazione prima mediatica e poi elettorale - il senso, cioè, di questi primi 100 giorni - l’ha fornita lo stesso Renzi nell’intervista concessa ieri ai maggiori quotidiani europei: «Noi abbiamo preso i voti parlando bene dell’Italia...».
Può apparire un’affermazione superficiale, un po’ populista e assai poco «politica» (e sono precisamente queste, infatti, le contestazioni che solitamente vengono mosse al neo-premier): e invece - dopo i cupi e improduttivi governi degli ultimi anni: di centrosinistra, di centrodestra e di «tecnici» - aver colto il disperato bisogno del Paese di tornare a credere in qualcosa e di provare a essere ottimista, è forse proprio la chiave di volta di un successo sul quali pochi avrebbero scommesso davvero.
La «velocità» come strumento e un certo «decisionismo» come pratica di governo, sarebbero serviti a ben poco - probabilmente - se non fossero stati sostenuti da una «filosofia» che, in fondo, può esser definita del tutto nuova. È dagli Anni 60, infatti, dal boom economico, e più recentemente - si fa per dire - dai primi mesi di governo del Berlusconi versione 1994, che l’Italia non veniva invitata ad esser ottimista. Ora, certo, l’ottimismo non è una categoria politica: ma era, evidentemente, un bisogno diventato quasi insopprimibile per un Paese fiaccato da anni di declino e di esodati, di disoccupazione al culmine e di tangentopoli di ogni genere.
È questo bisogno - tradotto anche in atti di governo, certo - che Matteo Renzi ha cavalcato con il coraggio e perfino l’incoscienza di chi decide di puntare fino all’ultima lira su un solo colore: o il rosso o il nero. La messa all’asta delle auto blu - fotografia della fine dei privilegi della «casta» - e il drastico taglio agli stipendi dei manager di Stato sono stati i provvedimenti-simbolo del propagandato «cambiar verso». E più nella sostanza, l’investimento sulle donne (nel governo, alla guida di aziende di stato e poi delle liste elettorali), accompagnato all’avvento nel partito e nell’esecutivo di personalità nuove e giovani, ha dato il senso di una scommessa non contraddittoria.
Ottimismo, dunque, e forze nuove: questa è stata la base di partenza. Sulla quale, assai più faticosamente, al governo tocca ora innestare riforme, come si è soliti dire, di «struttura». Quella della pubblica amministrazione e della giustizia sono in gestazione ma non hanno ancora visto la luce; quella elettorale e quella del Senato l’hanno invece vista salvo, poi, esser riprecipitate nel buio. È su provvedimenti di sostanza, dunque, che Matteo Renzi dovrà giocare la «fase due» del suo nuovo governo. Ed è facile prevedere che la strada non sarà in discesa, anche perché nella testa di amici e avversari ronza sempre più insistente l’idea che «altri 100 giorni così, e siamo rovinati»...
Il grosso, se non il tutto, resta insomma da fare. Il premier, naturalmente, ci proverà. Avendo ora dalla sua due giganteschi punti di forza: il 40% di consensi fatti registrare sette giorni fa e una strada sgombra da tornate elettorali generali da qui al 2018. Andassero male i primi passi, c’è poi sempre la possibilità di cambiare campo di gioco: la guida del semestre europeo e la sfida da lanciare a Bruxelles sembrano esser lì apposta. E in fondo, portare da Roma in Europa la filosofia della «rottamazione» potrebbe esser niente male. A meno che non ci sia qualcuno disposto a sostenere che nel Vecchio Continente le cose vadano bene così...
Federico Geremicca, La Stampa 1/6/2014