Malcom Pagani, Il Fatto Quotidiano 1/6/2014, 1 giugno 2014
“L’ITALIA È UN OMBRELLO CHE NON SI CHIUDE MAI”
[Intervista ad Altan] –
Altan fuma il sigaro, beve caffè amaro e come certi personaggi delle sue storie non crede in dio e non professa culti che osino superare la Gibilterra della scommessa quotidiana: “Sono ateo”, “Io no, credo nel Superenalotto”. Altan cova opinioni che non condivide: “Non sono convinto di aver molto da dire”. Altan è uno scaffale di tesori che per pudore chiama “vignette”. Sono più di 7.000: “Le ha contate mia sorella” e sul tema, di più non gli si cava: “Sono timido, lo sono sempre stato, ma con il tempo la situazione è migliorata”. Altan ha la barba di Mosè, ma non sente di detenere alcun segreto. Così minimizza, riduce, ride di se stesso e quando gli pare di esagerare, precede i ragionamenti sibilando un “abbastanza”. Al secondo piano di una casa che era stata di suo padre: “Da queste parti, con la Brigata Osoppo, fu anche partigiano”, circondato da fieno, rose e campagna, Francesco Tullio impasta il suo pane da quasi mezzo secolo con china e pennarello.
Ha fatto definitivamente scalo a Grado, anche se la bici da lanciare tra le gole della Carnia è ormai un ricordo: “Il tendine è a pezzi” e i viaggi sudamericani – 4 mesi l’anno, figli di un antico patto con Mara, la moglie brasiliana – si sono trasformati in una pallida parentesi invernale: “Nel 2014 a Rio sono stato solo 20 giorni. Se non sento l’atmosfera giusta, non riesco a disegnare”. Poi mima l’aria con le dita perché è qui, alle porte di Aquileia: “Dove sono discreti e la tentazione massima, il cinema, è a 18 chilometri” che Cipputi, la Pimpa e il Cavalier Banana, fiabescamente, possono vestire in tuta blu, correre felici o agitare l’ombrello senza far piovere nevrosi. Altan iniziò alla fine dei Sessanta su Playmen e già all’epoca, con piglio da Wodehouse, ritraeva mostri, satrapi, cialtroni e disgraziati. Donne travestite da sirene, impegnate a cantare con il timbro del cinismo: “Io son disposta a tutto, basta che sia alto, bianco, serio, biondo, innamorato e ariano”. Farfalle in volo allusivo: “Sul serio credevate che gli entomologi ci rincorressero per le bellezza delle nostri ali?”. Affreschi di naufraghi che ballano porcini all’immorale ritmo della perdita di sé: “Babbo, vado in tv”. “Allora non ho vissuto invano”. Se ripensa al viaggio originario intrapreso nel settembre del ’42, al mare navigato in zattera prima che Linus, Il Corriere dei Piccoli, l’Espresso, Le Monde e la Repubblica offrissero al suo talento un oblò per guardare la vita al riparo dalle onde, Altan trova piroscafi da disegnare: “Vidi una nave sulla Treccani immaginandomi progettista” e lessici familiari meno diretti degli interni che ha fotografato senza concedersi il lusso della pietà: “Papà, mi suicido”. “Non fare il moralista, spara agli altri”. Tra le mura di San Vito al Tagliamento, la dialettica da tinello dei suoi genitori, Nora e l’antropologo Carlo Tullio, viveva di prassi consolidate: “Almeno fino a quando, nel ’50, non si separarono. Mia madre era dolce e mio padre severo. Con me giocava poco e aveva idee precise su quel che si dovesse o non si dovesse fare. Poi un giorno facemmo le valigie e partimmo per Bologna. Avevo annusato l’atmosfera, ma nessuno mi disse né mi spiegò niente. All’epoca l’addio tra moglie e marito si gestiva male”.
Fu traumatico?
Abbastanza. Arrivammo a fine novembre. La nebbia era nebbia e il freddo, un freddo porco. Dalle finestre si vedevano ancora i palazzi distrutti dai bombardamenti. Sembrava Guernica. Tubi, appartamenti sventrati, tetti crollati . Bologna, con il tempo, si è fatta amare molto. Ci ho vissuto fino ai 19 adorando le sue piazze, tifando per la sua squadra di calcio e sentendola sempre una seconda patria. Il ricordo casalingo di mio padre invece è fermo agli 8 anni, a una visita sporadica e a qualche vacanza estiva.
Il disegno è un riflesso della solitudine?
A 14 anni volevo fare il pittore. Mio padre mi dissuase: “Fai il Liceo, poi deciderai”. In verità non ho mai scelto una mia strada. Mi sono fatto guidare dalle correnti. All’inizio degli Anni 50 la tv non c’era e le alternative erano poche. Si disegnava e si leggeva creandosi la propria mappa un libro dopo l’altro.
Ha letto molto?
Esisteva il dovere di leggere ed era una fatica. Il punto di rottura fu L’uomo senza qualità di Musil. Era estenuante e mi fermai al primo volume. Cominciando a scegliere da solo, senza imposizioni, conobbi finalmente anche il piacere. Il meccanismo perfetto dei gialli di Dürrenmatt o Le Carré. L’umorismo un po’ amorale degli inglesi. Una goduria. Con il disegno è andata diversamente. Mi è sempre parso la miglior maniera di raccontarmi alcune cose liberando la fantasia. Lo fanno anche i bambini e del loro spazio, sono gelosissimi. Mia nipote si chiude in camera e assegna le parti. Se la interrompi si infuria.
Lei sembra calmo a prescindere dal contesto.
La verità è che detesto spostarmi. Ti dicono: “Ci mettiamo un’ora” e un’ora non è mai. Si perdono 3 giorni e fuori dal mio ambiente, non riesco a pensare. Non amo il telefono e non ho molti amici. Ma ne ho di buoni. Magari non ci incontriamo per un anno, ma quando accade, si riparte dallo stesso punto. Non c’è bisogno di spiegarsi con gli amici veri. La condizione che preferisco.
Battute folgoranti in enciclopedia minima: “Lei è un coglione”, “Maledizione, un’altra fuga di notizie”. “Siamo sull’orlo del baratro”, “Goditi il panorama”. “Peggio non poteva andare: sono morto e mi sono reincarnato in me stesso”. “Ho pensato a delle cose orribili”, “Falle, adesso, così ti togli il peso”.
Qualcuna mi viene così, nella fase tra il sonno e la coscienza piena, nel dormiveglia. È un Tin-tin.
Un Tin-Tin?
La battuta è un suono. Un istinto. Un lampo. Altre volte devo capire cosa mi stia davvero sullo stomaco e per elaborare ci vuole tempo. Mi piace dialogare con il lettore, portarlo dentro al paradosso, coinvolgerlo come hanno fatto i creatori di una magnifica serie tv, House of cards. Ho sempre pensato che a chi ti va a cercare sul giornale si debba restituire qualcosa. Che se si stufa lui, il patto, all’improvviso, non funziona più.
Lavora di notte?
Non più. Una volta stavo in piedi fino alle 4 del mattino ed erano ebbrezze, non solo artistiche, e lunghe notti terribili per la salute. Non vedevo la luce, avevo la sindrome del fornaio. Ora devo dormire 8 ore, sogno molto e non faccio più incubi. Se ho un’illuminazione mentre riposo, la lascio fuggire. L’attività onirica inganna e io non voglio deludermi come quel regista francese che lascia il letto, corre al tavolo, scrive su un foglio un passaggio decisivo del suo film e quando si alza, il giorno dopo, trova soltanto 5 parole: “Un uomo ama una donna”.
Lei ha conosciuto sua moglie in Brasile.
Con lo sceneggiatore di Prima della rivoluzione, Gianni Amico, partii nel ’67 su un Jet della Varig per il Brasile. Gianni avrebbe girato un film sulla locale musica popolare e il produttore, Barcelloni, mi propose di unirmi alla troupe. Studiavo Architettura a Venezia. Ero a due terzi del percorso. Lasciai l’Università e sui libri non tornai più. Stordito, con un giubbotto di Renna, attraversai Rio tra un caldissimo pranzo a Copacabana e un ufficio all’ultimo piano da raggiungere senza ascensore. Mara la incontrai 3 anni dopo. Faceva la costumista. La assunsi per Tatu bola. Le riprese cominciarono nell’ottobre del ’70. A novembre del ’71 nacque nostra figlia. Del cinema non sapevo nulla. Facevo di tutto. Autore, fonico, scenografo. Il primo incarico, atroce, fu da sdoganatore delle attrezzature che arrivavano dall’Italia. Andavo all’aeroporto con un funzionario del Consolato, il dottor Palla, e le tasche piene di banconote. La corruzione era sistematica. Palla sapeva come muoversi senza disagio.
Il dottor Palla sembra una sua invenzione letteraria.
Le due o tre volte che non poté scortarmi, vidi l’inferno. Mi trovavo al cospetto di mostruosi ceffi in divisa e dell’enorme rotolo di denaro tra le dita, non sapevo cosa fare. Se darglieli, non darglieli e come darglieli, ’sti soldi.
Altra tappa, Roma.
Un periodo di passaggio tra i viaggi sudamericani. Vivevo in Via del Pellegrino. Era considerata la strada dei ladri e naturalmente era tra gli angoli più sicuri di Roma. Il caos mi piaceva, ma quando tornai un decennio dopo, il disgusto per la confusione prese il sopravvento sullo stupore. Lavoravo sulla Salaria e spesso, nonostante la distanza, nell’impossibilità di trovare un taxi, andavo a piedi. Ho visto La grande bellezza di Sorrentino e ho ritrovato immutati alcuni tratti cittadini.
Le è piaciuto?
Sorrentino è un autore che ammiro. Nei suoi lavori, anche da scrittore, emana una sorta di disperazione controllatissima, un’atmosfera sconfortante, il quadro di un’umanità che in sé ha gli anticorpi per non abbandonarsi al dolore. This Must be the Place, per esempio, è un’opera straordinaria: sembra che divaghi, che si perda e invece mantiene inalterato il nucleo narrativo.
Sorrentino sostiene che la digressione sia una delle cose per cui vale la pena vivere.
È una bella suggestione. Mi chiamavano dottor Divago e, anche se mia moglie divagava molto più di me, so di cosa parlo. Nei fumetti lunghi mi distraevo parecchio, perdevo il filo, andavo dove volevo. Alla setta dei divagatori aderisco senza indugi.
Lei è stato anche sceneggiatore.
La scrittura delle sceneggiature è un esercizio orrendo. Bisogna supporre cose che non succederanno mai: “Lui entra da qui e dice questo”, mentre sai già che entrerà da un’altra parte e dirà un’altra cosa. C’è un certa frustrazione nel mettere fantasia e budget nello stesso cerchio. Io ho partecipato solo alla stesura di qualche discutibile canovaccio, ma i copioni letterari, Bergman per intenderci, li avevo letti. In Cuori Pazzi, ambientandolo in Svezia, avevo tentato di riprendere quel filo.
Cuori pazzi si presentava così: “Storia di sesso e di speranza miste alla ricerca di dio attraverso il lurido labirinto che è la vita”.
Quando mi guardo indietro sto attento a non rimpiangere niente. Il passato è stato sempre più complicato di come ce lo ricordiamo e di come, soprattutto, ce lo raccontiamo. Forse ho nostalgia degli anni bolognesi, ma più probabilmente è nostalgia per i miei 16 anni. E non è vero che il tempo degli anziani valga di più. È tutto uguale il tempo. L’impresa eccezionale è organizzarlo, dargli un ordine. Prenda la Pimpa, compie 40 anni tra qualche mese. La concorrenza di Peppa Pig è feroce, ma io so che i bambini e la mia edicolante la aspettano ancora. Non posso fermarmi. (Ride)
Come nacque?
Giocando con mia figlia. Feci questo cagnolino con i puntini rossi, inventai una storiella di supporto e Marcelo Ravoni, il mio primo mentore, l’uomo che portò Quino e Mafalda in Italia, la consigliò al Corriere dei Piccoli. La Pimpa del ’75 era molto brutta, sgangherata, eversiva rispetto ai canoni formali. In linea con quel che mi appassionava all’epoca, con il tratto dei disegnatori americani e dei francesi di Hara-Kiri. Infatuazioni momentanee. Ieri usavo i pantaloni a zampa d’elefante, oggi credo li lascerei nell’armadio.
E Cipputi, il suo operaio? È rimasto nell’armadio della memoria anche lui?
Gli voglio bene e ogni tanto lo richiamo in servizio, ma Cipputi è preistoria. Non riesco più a immaginarlo. In quel senso è cambiata ogni cosa.
I giornali vendevano più di oggi.
I giornali hanno le loro colpe. Ultimamente ho l’impressione di leggere cose che ho già sentito e se si guarda una prima pagina di un anno fa non la si distingue da quella dell’anno successivo. Ma alla dittatura del quotidiano sul web non mi arrendo. Ho bisogno del caffè, della carta stampata stesa sul tavolo, delle liturgie mattutine, delle mie operazioni a stretto contatto con l’abitudine.
Le Monde le propose di inventare una vignetta tutti i santi giorni.
E io dopo qualche settimana, dissi grazie e declinai. Anche Eugenio Scalfari, nell’unica telefonata che mi fece nell’82, mi fece una richiesta simile. Fu gentile. Forattini aveva appena lasciato Repubblica. Di fronte al diniego, per farmi cambiare idea, Scalfari mi informò che avevano inventato il Fax.
È cambiata anche la politica.
I nostri politici sono di una pigrizia mentale che sfiora il fantastico. Da un secolo sono abituati a fare le cose in un certo modo e degli strumenti della modernità non sanno cosa farsene. Come singoli individui non sono neanche pessimi, ma come organizzazione mostrano una sconfortante incapacità. La violenza verbale, poi, è arrivata a un livello incredibile. Non c’è più limite e mi pare accompagnata da un totale disinteresse per i fatti concreti. Un dato pericolosissimo. Del Pd non si può sempre parlar bene, ma la controparte rimane peggiore.
Per un certo periodo Pd e destra governeranno insieme.
Di queste ipotesi, quando ero giovane, ridevamo. Ma quando non si hanno soluzioni per nessuno, l’impotenza è uguale per tutti. Ricorda Primo Levi ne La Chiave a Stella? Le cose vanno fatte bene, siano piccole, grandi o insignificanti. In politica non vedo cose fatte bene. Solo chiacchiere, discorsi vuoti, vanità.
C’è chi sostiene che Renzi sia l’erede di Berlusconi.
Non mi pare. Forse le tecniche affabulatorie si somigliano, ma nei suoi occhi non vedo la stessa cupidigia. Alle primarie non l’ho votato, ma una possibilità, da elettore, devo dargliela. Il suo avvento è la cosa più vicina a smuovere le acque che abbiamo visto negli ultimi decenni. Poi è tutto discutibile, ma mandare sempre la palla altrove non è saggio. Cerchiamo di mettere le mani nella pasta che abbiamo davanti a noi, per una volta.
Deduco che Grillo non l’abbia mai convinta.
L’ha visto da Vespa? Lindo e così tranquillo da apparire svuotato, fuori contesto, sconfitto. Grillo sudato sul palco sarebbe anche bravo, ma mi pare che in assoluto non ci sia sostanza e che se togli le urla non rimanga nulla. Non apprezzo l’oratoria che indulge allo strillo per lo strillo.
Su Berlusconi ci teniamo ombrelli, banane e vignette ormai storicizzate?
Sono veramente stanco di quest’uomo. Non se ne va mai. L’ombrello non si chiude.
Malcom Pagani, Il Fatto Quotidiano 1/6/2014