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 2014  giugno 01 Domenica calendario

LA RABBIA DI KEMPES PER BATTERE L’OLANDA NEL PAESE OSTAGGIO DEI SUOI GENERALI

[Argentina 1978] –

Si può capire Mario Kempes. Accidenti se si può capire. Durante la gloriosa e per certi versi un po’ ridicola finale contro l’Olanda, arbitrata da Sergio Gonella, lui non ci pensava. Al dolore che c’era dietro, al rumore della violenza di regime, più assordante di cento Monumental messi insieme. Lui segnava, vinceva, scattava e dribblava. Con quei capelli selvaggi, da uomo chiamato cavallo, corse a braccia larghe verso una tribuna che non amava, anzi detestava, solo che non poteva ammetterlo, non in quel momento. Azucena Villaflor de De Vincenti, una delle madri storiche di Plaza de Mayo, già pativa in una prigione segreta dell’Esma, da più di sei mesi. Il regime di Videla aveva cominciato a far sentire i suoi artigli, che uccidevano, rapivano, facevano scomparire gente e democrazia come fossero sinonimi (il colpo di stato era avvenuto il 24 marzo del ’76). Artigli spietati che graffiavano metaforicamente anche i “papelitos”, i lunghi nastri di carta bianca e celeste srotolati sulle tribune degli stadi nella speranza, chissà, di mascherare l’orrore, in realtà rendendo tutto ancora più spettrale. Volevano nascondere i militari, disseminati ovunque, con la carta igienica. Mario Kempes fu l’eroe di quei Mondiali, che pure aveva cominciato male, deludendo. Meglio di lui Luque, lo “scarface” che giocava a centravanti, e Daniel Bertoni sulla destra (da lontano i tre si somigliavano in modo quasi imbarazzante).
Ma la finale fu sua. Realizzò una storica doppietta. Alla premiazione, cui l’Olanda, imbarazzata e forse anche truffata, priva di Cruyff che a 31 anni aveva preferito abbandonare gli “oranje”, scelse di non assistere, Mario fu l’unico dei giocatori di Menotti a non stringere la mano a Videla. Disse poco dopo che il suo gesto non aveva alcuna valenza politica: «Fu colpa della confusione». Come no, Mario. Era scappato dall’Argentina, Kempes, approfittandodel fatto che sulla panchina del Valencia sedeva Alfredo Di Stefano. Vinse. Per due anni fu il “pichichi” della Liga. Quel giorno al Monumental, il 25 giugno 1978, in nome di un paese dilanianto, per coprire i delitti del capo, per giustificare i 457 milioni spesi da una nazione devastata economicamente (il quadruplo di quello che quattro anni dopo sarebbero costati i mondiali spagnoli), per dimostrare anche che quella squadra poteva ancora fare a meno del giovanissimo ma già straordinario Maradona, escluso dalla lista del convocati da Menotti (che pure lo aveva fatto esordire più di un anno prima in “albiceleste”), per sorvolare sui misteri di Argentina-Perù 6-0 e l’acquiescenza del leggendario portiere argentino-peruviano Quiroga, Mario salì sul palco dei campioni in mezzo alle cartacce e ai sospetti, oscurando il resto. Il suo primo gol, in “estirada”, al 37’ del primo tempo, fu un gesto esemplare, da calciatore vero, quasi sprecato nella melma che avvolse quel torneo. Ma il secondo, quello del 2-1, a un minuto dalla fine del primo tempo supplementare, fu rabbia e talento riassunti in una serpentina demoniaca che anticipava l’incombente calcio di Maradona, un regalo al mondo del pallone. Calcio che Messi, baciato da una velocità ancora più assordante, avrebbe rivoluzionato definitivamente con le sue qualità sublimi e la sua continuità, stabilendo un prima e un dopo. Diverso per caratteristiche fisiche, Kempes aveva il germe argentino della bellezza tecnica dei suoi epigoni di stazza più ridotta ma fu anche il clamoroso prosecutore del calcio “totale”, tecnico e muscolare, inventato proprio da Cruyff, il “nemico” che in Argentina non si presentò (forse per ragioni politiche) ma che applaudì da lontano le gesta di Mario: “Precorse i tempi, pareva un olandese ». In quei pochi minuti, forse non così forte nel carattere, Kempes raccolse il meglio di sé, ultimò la propria vicenda agonistica. Rimpatriato al River Plate non combinò niente. Stessa vacuità al suo ritorno in Spagna. Era ingrassato e svaporato. Ai Mondiali dell’82 cedette di proposito il suo numero 10 a Maradona: sapeva di essere al tramonto. Nella sua autobiografia Diego gli tributa un onore pazzesco: «Mario mise il calcio argentino sulla mappa del calcio mondiale». Robetta. Kempes si prosciugò chiudendo in due squadrette austriache, il St. Polten e il Kremser e per un mese, avete letto bene, un mese, allenò il Casarano: era il dicembre 2001. Ma che notte, quella notte. Gli riuscì persino di evitare la mano insanguinata di Videla. Gli riuscì tutto.

Enrico Sisti, la Repubblica 1/6/2014