Vittorio Zucconi, la Repubblica 1/6/2014, 1 giugno 2014
JOHN WAYNE OMBRE GROSSE
[Due articoli] –
NEW YORK
John Wayne è un personaggio inventato da un uomo chiamato Marion Morrison, il quale capì, nel momento stesso in cui mise piede a Hollywood, che con quel nome non avrebbe mai sfondato. Sin da giovane Marion voleva diventare un eroe americano, e quando Raoul Walsh gli suggerì di ribattezzarsi Anthony Wayne scartò solo il nome, “troppo italiano”, decidendo che il suo destino era quello di rappresentare l’epica della normalità: l’ average guy che ognuno avrebbe voluto, secondo lui, come padre, fratello, amico e sposo.
Una magnifica biografia di quasi settecento pagine a firma di Scott Eyman, intitolata John Wayne, the life and the legend (Simon & Schuster, 672 pagine, 23.90 euro) ne intreccia la realtà più intima con l’immagine che l’attore riuscì a creare sullo schermo, lungo una carriera di oltre cinquanta anni, che lo ha visto interpretare alcuni dei più grandi film americani mentre assumeva posizioni estreme e spesso reazionarie. Era nato a Winterset, nell’Iowa, ma era cresciuto in California, dove il padre farmacista lo aveva educato secondo i dettami della religione presbiteriana. Era alto un metro e novantatré e aveva un fisico possente, ma si sentiva brutto e sgraziato. Quello che conta sono gli ideali, diceva, e lui li ha inseguiti tutta la vita con passione: da giovane ha creduto sinceramente nel socialismo, salvo poi ripudiarlo a favore di un patriottismo sempre più rigoroso. Soffrì molto quando venne scartato dai marines, e poi, a seguito di un incidente, quando perse la borsa di studio universitaria ottenuta per meriti sportivi. Entrò a far parte della loggia massonica di Glendale e cominciò a fare l’attore grazie a Tom Mix, il quale gli trovò lavoro come comparsa. Dopo un lungo purgatorio di pellicole di serie B, John Ford gli offrì il ruolo di Ringo in Ombre Rosse: fu l’inizio di un sodalizio artistico e umano che venne sigillato da oltre venti film. Ford fu il primo a comprenderne la mescolanza di epica e quotidianità che esprimeva con quel corpo gigantesco, l’umorismo aspro e le battute asciutte. E si rese conto subito che non era un grande attore, ma molto di più: un’icona, un modello di virilità e integrità e una presenza imprescindibile. Insieme hanno firmato molti capolavori, tra i quali Sentieri Selvaggi, Un uomo tranquillo e L’uomo che uccise Liberty Valance : anche nei momenti in cui la qualità recitativa è modesta, risulta evidente come quei film sarebbero inconcepibili senza la sua presenza maestosa. È lo stesso motivo per cui un artista come Richard Prince ne è tuttora ossessionato e un fine intellettuale come Gary Willis ha scritto John Wayne’s America , nel quale identifica gli aspetti più grandiosi e controversi della star con l’intero Paese. Ed è lo stesso motivo per cui conquistò il rispetto anche di chi aveva idee opposte, come il liberal Robert Aldrich, che ne pronunciò un commovente elogio funebre.
Sposò tre donne, tutte di origine spagnola, ma ebbe molte relazioni, la più significativa delle quali con Marlene Dietrich: anche lei contestava aspramente le sue idee politiche, ma ne ammirava l’onestà intellettuale. Fu l’impossibilità di combattere in guerra per questioni di età che fece acuire il suo patriottismo, spostandolo su posizioni sempre più conservatrici. Dopo aver votato con convinzione per Roosevelt e Truman, divenne un anticomunista viscerale, e all’epoca del maccartismo appoggiò il Comitato per le attività anti-americane, interpretando Big Jim McLain , un imbarazzante film di propaganda. Mantenne tuttavia sempre un’autentica autonomia rispetto al partito repubblicano, che pure appoggiò pubblicamente: inaugurò la convention del 1968 che avrebbe incoronato Richard Nixon, e poi aiutò finanziariamente Ronald Reagan, ma non esitò a elogiare Jimmy Carter quando il presidente appoggiò gli abitanti di Panama nel controllo del canale.
Nell’America di John Wayne l’individuo è sempre al di sopra di ogni istituzione, anche quella che rappresenta le proprie idee, e “Duke”, come lo chiamavano gli intimi, scelse i film partendo dalla moralità dei personaggi, a costo di interpretare ripetutamente lo stesso ruolo. Predilesse, oltre all’eroe del West, i ruoli di pilota di guerra. Rifiutò con sdegno Tutti gli uomini del re, che definì anti-americano, e cercò in tutti i modi di immortalare l’Ispettore Callaghan, ma gli venne preferito Clint Eastwood, un’altra icona della destra statunitense. Le migliori interpretazioni sono quelle della vecchiaia, come Il Grinta, per il quale vinse il suo unico Oscar, e Il pistolero, nel quale era un uomo malato di cancro. Leggendari gli interventi sulle sceneggiature: «Ho interpretato duecentocinquanta film, e non ho mai sparato a nessuno alle spalle. O cambiate questa scena o me ne vado», disse a un esterrefatto Don Siegel. Questo misto di epica e quotidianità, dignità e spirito reazionario lo resero mitico in ogni parte del mondo: l’imperatore Hirohito chiese espressamente di incontrarlo, e Stalin ipotizzò un complotto per uccidere “una delle più significative icone americane”.
I suoi film come regista sono scadenti e reazionari: in particolare Berretti Verdi, nel quale celebrava l’intervento in Vietnam. Il libro di Eyman consente di riflettere su come sia impossibile distinguere l’uomo dal personaggio: in un’intervista a Playboy dichiarò di «credere nella supremazia bianca fin quando i neri non dimostrano senso di responsabilità», e di esser felice di aver rifiutato Mezzogiorno di fuoco : «È una delle cose più anti-americane che abbia mai visto, e non mi pento di aver costretto lo sceneggiatore Carl Foreman ad andar via dal nostro Paese». Rispetto ad altri divi di Hollywood riuscì a difendere relativamente la propria privacy, tranne per quanto riguarda la salute. Fu un grande bevitore e un fumatore accanito: sconfisse miracolosamente un tumore ai polmoni, ma poi dovette soccombere quando il male riapparve nello stomaco. Sulla tomba chiese che fosse scritto “Brutto, forte e pieno di dignità”, ma la verità più profonda la disse in punto di morte all’ultima moglie: «Ho recitato il tipo di uomo che avrei voluto essere».
Antonio Monda, la Repubblica 1/6/2014
MA CHI ERA DAVVERO LA BOMBA W? –
“Guarda che tu non sei John Wayne” gli disse brusco Kirk Douglas dopo una furiosa discussione fra i due su come si dovesse recitare. Ci voleva un bel fegato per dirlo in faccia all’attore che, per una generazione, era stato nel mondo il corpo, il viso, la voce dell’America. Ma la domanda rimane ancora oggi difficile: chi era davvero quell’uomo, figlio di un farmacista venuto dallo Iowa, o The Duke, il duca, come tutti lo chiamavano a Hollywood, senza sapere che era semplicemente il nome del suo primo cane?
Se nel gioco di specchi fra il personaggio e la persona, ogni attore rischia sempre di smarrire se stesso, l’enormità di questo gigante ha forse per sempre ingarbugliato la realtà e la percezione.
Per quanto si sia potuto adorare o detestare il perticone delle Grandi Praterie, il credito che tutti gli riconoscono è di essere sempre rimasto fedele alla propria icona. La sua ossessione per l’immagine che proiettava — fino a ingaggiare sceneggiatori a plotoni soltanto per levigare la battuta perfettamente “sua” — testimonia qualcosa che va oltre la professionalità. Più che banale vanità di star, la sua era coscienza dell’essere tutto ciò che l’America immaginava e avrebbe voluto essere, in un universo culturale rimasto sempre in bianco e nero, diviso in noi contro voi. In uno studio su Hollywood e la Guerra Fredda, l’autore Tom Shaw indicò proprio in Wayne una delle armi più efficaci della guerra psicologica, e ideologica, per conquistare i cuori e le menti di amici e nemici. E lui sapeva di essere la “Bomba W”, che non a caso Stalin aveva immaginato di uccidere. Tutto ciò che di bene c’era contro il male doveva essere in lui, il giustiziere del West, il pioniere alla conquista di un continente selvaggio, il soldato senza paure né dubbi nell’atroce polpettone Berretti Verdi in Vietnam. Che tutto quel bene, dai musi rossi da sterminare ai musi gialli da uccidere nelle Filippine fino ai “Charlie”, i vietcong nello slang spregiativo, non fosse poi tanto bene era un pensiero lontano da lui. A Wayne, Reagan si era sempre ispirato. Ora che il calco di quel tipo di recitazione e di propaganda si è spezzato definitivamente è forse possibile azzardare una risposta alla domanda polemica di Kirk Douglas, che lo accusava di essere ormai prigioniero di una maschera. Negli ultimi mesi della sua vita, il figlio del farmacista dello Iowa confessò di aver sempre interpretato l’uomo che avrebbe voluto essere. E dunque Kirk si sbagliava: John Wayne era davvero John Wayne.
Vittorio Zucconi, la Repubblica 1/6/2014