Filippo Ceccarelli, la Repubblica 1/6/2014, 1 giugno 2014
COMPAGNI DI LETTO
[Due articoli] –
Luigi Longo, il metallico compagno Gallo della guerra civile spagnola, confessa di aver sposato Teresa Noce perché succube della «violenza morale compulsiva» della mamma. Marisa Musu, integerrima partigiana dei Gap di via Rasella, s’incolpa di «temperamento ipocondriaco e malinconico». Aldo D’Onofrio, potente capo dei quadri del Pci, accetta che il suo matrimonio sia descritto in termini di «violenza di consenso e impotenza coeundi ». Ma quanto erano fragili in casa, questi uomini e queste donne di marmo? Invece no, erano solo finzioni da tribunale, mortificanti ma necessari escamotage avvocateschi per strappare l’annullamento del matrimonio in quella “sacra rota comunista” che era la Repubblica di San Marino negli anni Cinquanta.
Bisognava pur fare qualcosa. Era una frana. Saldati nella clandestinità antifascista, forgiati al fuoco della Resistenza, nella rilassata libertà democratica i matrimoni comunisti si sfasciavano uno dopo l’altro, non reggevano a quella “voglia di vivere, cantare, parlare e stare insieme”, magari in una Festa dell’Unità, che molcea il cor anche dei funzionari più gelidi. «Fra i compagni di ogni livello», scrive Rossana Rossanda, «imperversavano passioni e tragedie, separazioni e unioni di fatto». La probità proletaria, a lungo contrapposta al libertinismo dei ricchi, sfarinava in quello che gli avversari bollavano come «amore libero». Il ménage Togliatti-Iotti, “scandalo in rosso” che turbò le coscienze di migliaia di militanti, ha fatto finora ombra a un fenomeno diffuso, virale. Gli irregolari del Pci ora ce li racconta un originale saggio (Laterza, 192 pagine, 18 euro) che Anna Tonelli, storica del contemporaneo e del costume, ha ricavato da carte finora mai sfogliate. Erano tanti, gli amori comunisti irregolari, famosi e sconosciuti, dirigenti e militanti.
E il Partito si occupava di tutti.
Perché non poteva esserci un muro fra vizi privati e pubbliche virtù in un Pci bisognoso di legittimazione morale nell’Italia democristiana che lo accusava di voler demolire la famiglia.
C’era dunque la “cicici”, la Commissione centrale di controllo, la Lubjanka di Botteghe Oscure, a vigilare sulle eterodossie sessuali degli iscritti. Ma non era un’imposizione orwelliana. Per primi i dirigenti convocavano il partito in camera da letto. Prima di lasciare la Noce e andare a vivere con Bruna Conti, Longo informò gerarchicamente Togliatti, promettendo «di dare alla cosa la minima pubblicità possibile». Tradire la moglie si può, ma con l’autorizzazione del segretario. E il partito deliberava come sulle questioni di linea politica: «Si ritiene nell’interesse del partito che i compagni Longo-Noce e Togliatti-Montagnana regolino la loro situazione nel senso dell’annullamento matrimoniale», Secchia e D’Onofrio seguirono la pratica.
Nella clandestinità, l’endogamia ideologica era stata una cautela obbligatoria: relazioni fuori dal partito potevano essere trappole. A Parigi, Celso Ghini fu convinto da un’assemblea di compagni espatriati a «non fare sciocchezze» con una ragazza. Ma nella tranquillità repubblicana, il centralismo democratico degli affetti divenne una versione privata della “doppiezza” togliattiana. Il problema era l’immagine del partito, non i princìpi morali. Del resto Terracini, presidente della Costituente, era stato tacciato di “morale sovietica” dalla stampa ostile perché viveva con una donna separata. Ma una vera e propria censura etica contro i coniugi infedeli, almeno fra i quadri, non c’era. In qualche risoluzione della Ccc traspare anzi il disagio nel dover sanzionare gli “irregolari” che creavano più scandalo.
Eppure, quando le coppie rosse cominciarono a scoppiare, il partito dovette trovare un riparo al pubblico scandalo: e fu la fuga divorzista a San Marino. Nella micro-repubblica rossa del Titano, per l’irritazione vaticana, i matrimoni potevano essere annullati. Ne approfittarono Einaudi e Vittorini. Gli irregolari rossi ci si precipitarono: D’Onofrio, Pietro Amendola, Gerratana, Grieco. Rinunciò Togliatti, perché avrebbe dovuto abdicare alla cittadinanza italiana: improponibile. Andò invece fino in fondo Longo, anche troppo: Teresa Noce non fu convocata per un disguido, e la “cenerentola rossa” si ritrovò divorziata a sua insaputa sui giornali (“La scissione Longo-Noce”, infierì Guareschi), allora scrisse una smentita pubblica che le costò l’espulsione dal gruppo dirigente, «un trauma più grande della deportazione».
Problema spinoso, quello della ribellione delle “ripudiate in rosso”. La differenza di genere, nella gestione politica dei divorzi comunisti, oggi appare eclatante e scandalosa. Solo in un caso l’iniziativa fu della moglie: fu Maria Antonietta Macciocchi ad avviare la causa per separarsi da Pietro Amendola. Rita Montagnana (che si rifiutò, scopre Tonelli, di andare in tribunale nella stessa auto del marito) finì emarginata dopo la rottura con Togliatti. Il partito era comprensivo con i compagni divorziandi, ma severo con le compagne che non accettavano che «i panni sporchi si lavano in Federazione».
Puritano all’esterno, tollerante ma maschilista all’interno, il Pci pronubo e divorzista non esce bene dallo scavo di Tonelli. Se i problemi fossero stati solo di letto, come quello del compagno tombeur, il dirigente pugliese trasferito di sede in sede perché ovunque insidiava mogli e figlie di compagni, sarebbe stato più semplice. Ma il cuore ha ragioni speciali. E fu l’intrattabilità sovversiva dell’amore la prima vera crepa nel monolito dell’ideologia comunista italiana.
Michele Smargiassi, la Repubblica 1/6/2014
IL POVERO ALDINO E LE CONSEGUENZE DELL’AMORE FINITO –
Ma poi, come succede, tutti questi amori e disamori, tutte queste passioni e lacerazioni qualche vittima lasciavano anche, e del tutto innocente. Nel bel libro di Anna Tonelli si accenna un paio di volte alle “difficoltà di salute” e ai “seri problemi mentali” di Aldo Togliatti, il figlio che il Migliore ebbe nel 1925 con Rita Montagnana e a cui il Pci ha riservato il più impietoso, per non dire il più inumano dei trattamenti.
Perché sballottato da Parigi a Mosca a Torino e affetto da una forma di autismo, Aldo, o Aldino, o Aldolino — come spesso accade i diminutivi enfatizzano la crudeltà del destino — fu sempre poco amato da suo padre, che dopo averlo abbandonato alla malattia in qualche modo lo sostituì con la bambina che si prese in casa quando andò a vivere con la sua nuova compagna, Nilde Iotti.
Inutile, ora, oltre che troppo facile, condannare. Resta che Aldo era fisicamente identico al padre: ingegnere, curiosissimo, poliglotta, ma troppo spesso si chiudeva nel mutismo. Tra un ricovero e l’altro, da Budapest all’Urss, lo si vide l’ultima volta ai funerali di Togliatti; ma una volta morta anche la Montagnana, nel 1979, il Partito, residuo Moloch, decise di cancellarlo, ma letteralmente, nel senso che lo rinchiuse a sue spese, lungodegente senza nome, in una clinica di Modena.
Dove, nel 1993, a Pci ormai scomparso, Aldo Togliatti fu “ritrovato”: un vecchio triste e silenzioso a cui un anziano militante portava la Settimana Enigmistica.
Morì nel 2011. Di lui ha scritto, oltre a Massimo Caprara, che fu a lungo segretario di Togliatti, Nunzia Manicardi ne I figli di Togliatti ( Koiné, 2002), ma a Broadway è andato in scena un dramma, Our fathers, di Luigi Lunari, in cui Aldo dialoga con Rosemary Kennedy, sorella di JFK, figlia anche lei “malata”, quindi rinchiusa e perfino lobotomizzata.
Ecco, nel momento in cui i sentimenti riacquistano diritto di cittadinanza nella ricerca storica, e senz’altro la malattia mentale si valuta in modo diverso da quarant’anni fa, magari è arrivato il momento di guardare con un altro occhio alla storia di questo sacrificio. Cominciando per esempio a restituire dignità storiografica e perfino politica alla testimonianza di Caprara secondo cui il figlio di Togliatti non era comunista, e ci teneva anche a non esserlo. Di più: in piena Guerra Fredda amava l’America; e almeno due volte scappò di casa per raggiungerla, in nave. Forse è una diceria, anche se può suonare come una specie di poesia, ma quel giovanotto confuso e intirizzito, che una notte del febbraio 1958 si aggirava sul molo di Civitavecchia, confessò che voleva imbarcarsi per andare a Disneyland. Inaudito, doloroso e tenero cortocircuito fra Aldolino e Paperino.
Filippo Ceccarelli, la Repubblica 1/6/2014