Dario Cresto-Dina, la Repubblica 1/6/2014, 1 giugno 2014
BUFFON NUMERO UNO
Buffon ha trentasei anni. Quello che comincerà il 12 giugno sarà il suo quinto Mondiale, come il tedesco Lothar Matthäus e il messicano Antonio Carbajal e nessun altro. L’appuntamento è a Torino qualche ora dopo la sua partecipazione a Sestriere alle celebrazioni per il decimo anniversario della morte di Umberto Agnelli. Abbiamo un po’ di tempo per parlare del mestiere del numero uno. L’ultimo uomo e anche il più solo. Un quadro di Edward Hopper. L’eretico che cammina in senso contrario al fluire naturale del gioco e al suo obiettivo finale. Qualcuno lo ha definito la nemesi, il distruttore di raccolti. L’unico che non suda, che indossa una maglia di un colore diverso da tutte le altre e che è costretto a partire da un luogo lontano e malinconico come una vigna dopo la vendemmia, anche nel momento della festa mentre i suoi compagni stanno già correndo da centrocampo sotto la curva del loro pubblico. Il solo che deve guardarsi sia dagli avversari sia dai fratelli perché lo possono fregare entrambi. Per queste ragioni e per tante altre il portiere è stato letteratura.
Poi, forse, le storie sono più semplici. Possono bastare un cielo d’agosto, avere dodici anni e essere innamorato di Thomas N’Kono, l’acrobata nero che ai Mondiali in Italia del ‘90 difende la porta del Camerun. Dovergli il destino, tanto da chiamare per gratitudine un figlio con il suo nome. Buffon appare simpatico, spavaldo, gentile e profondo. Sa scegliere con cura le parole. «Nella scuola calcio del Canaletto di Spezia, categoria Pulcini, poi nel Perticata a Carrara e nella rappresentativa di Massa e Carrara facevo il centrocampista. Con me c’erano Marco Rossi e Cristiano Zanetti. Ricordo un’infanzia bellissima. Pallone, subbuteo e soldatini. E il mare. Tifavo Juventus, ma soprattutto Genoa. Mi piacevano i piccoli e i deboli che arrivano secondi. L’Avellino di Barbadillo, il Pescara di Rebonato, l’Empoli di Ekström, il Foggia del tridente Baiano-Rambaudi-Signori. Passo al Bonascola e finisco in porta. Mio padre, che pesa i giudizi, riservato fino a sfiorare la timidezza, mi dice: ho sempre pensato fosse il tuo posto, ma non volevo dirtelo, ti piaceva fare gol». A tredici anni lo compra il Parma per quindici milioni di lire. «Ho giocato col numero 12 i primi due anni di carriera, poi col 77 dopo che mi bocciarono l’88, legandolo a discorsi politici alquanto fantasiosi e a me completamente sconosciuti. Penso che avrei potuto giocare anche con il 179. Ciò che impreziosisce la maglia è il nome sulla schiena, non il numero. Mi piacciono i dispari, penso siano un’attrazione fatale per le persone disordinate, con estro e spirito relativamente libero. I pari sono per i metodici, gli intelligenti, i razionali».
Accadono cose che sono domande, a volte trascorrono anni ma prima o poi la vita risponde. Oggi ha capito perché è diventato un portiere?
«Perché ha avuto un senso compiuto. Per narcisismo, per una forma di protagonismo esasperato. Non mi sarei accontentato di essere un buon portiere di serie C. Volevo diventare ciò che sono oggi, non più il miglior portiere del mondo, ma il miglior portiere al mondo di trentasei anni. Sono diventato un portiere anche per cattiveria agonistica, volevo strozzare in gola l’urlo del gol ai tifosi avversari».
Tutto si paga, in un modo o nell’altro. Il denaro, la fama, le vittorie. Quale è stato il suo contrappasso?
«Essere stato costretto a crescere troppo in fretta. Mi sono dovuto arrabattare, autoeducandomi con l’appoggio telefonico della famiglia. Per un sedicenne il mondo grande del calcio non era una zona di comfort. Faceva paura. Non ho mai desiderato il leggendario mantello della solitudine del portiere. Avevo bisogno di essere sorretto dagli amici».
Ne ha avuti, ne ha?
«Soltanto due. Marco e Claudio, vicini di casa e compagni di classe alle elementari e medie. Marco lavora nella segheria del padre, Claudio è il capo dei rimorchiatori di La Spezia. L’amicizia è un sentimento sacro. Nel calcio è complicata, faccio fatica a farle dei nomi ma ci provo: Chimenti, Grosso, Nista, Gattuso, Pirlo, Cannavaro, Thuram e Crippa. Sono le persone che ricordo con più piacere o con le quali ho condiviso i momenti belli».
Torniamo alle spine. “Boia chi molla”, il numero 88 che evoca Hitler, il diploma di ragioniere comprato, le scommesse clandestine, il gol-non gol di Muntari in Milan-Juve, la frase infelice “meglio due feriti di un morto”. Nessun pentimento?
«Ho fatto molti errori. Sono stato ignorante e l’ignoranza non è una giustificazione, ma bisognerebbe saper perdonare la gioventù. Ci sono dichiarazioni che non rinnego, quella sul gol di Muntari per esempio, peccherei di ipocrisia. Le scommesse... è capitato anche questo. Ma sono ben lontano da come sono stato descritto, non ho compagni segreti a bordo della mia nave».
Però le piacciono i casinò e il gioco d’azzardo.
«Le do una risposta secca e sincera. Il gioco ha sempre rappresentato e continuerà a rappresentare un piacere, un piacere e uno svago. Purtroppo in Italia non si vive con serenità questo tipo di attività e il concetto di gioco d’azzardo rimane tabù. Si preferisce l’associazione triangolare gioco-dipendenza-rovina. Per me è più dipendente chi spende solo mille euro ma regala alla dea bendata dieci o dodici ore al giorno del suo tempo piuttosto di uno come me che può rischiare di perdere centomila euro alla volta, ma dedica al gioco una sera ogni due mesi. Siamo un paese democraticamente giovane, ma bigotto e bacchettone con il vizio del luogo comune».
Il calcio a lungo andare dà assuefazione?
«Genera la stanchezza dell’abitudine. L’infinitezza di gesti, parole e falsi rituali. Per allungare la carriera devi fidelizzarti. Penso alla grandezza raggiunta nella stessa squadra e nella stessa città da Del Piero, Maldini, Totti. Se cambi di continuo o sei un carro armato o vai facilmente in pezzi».
Nella sua autobiografia lei racconta la depressione che l’ha colpita una decina d’anni fa. Scrive che si svegliava dicendo a se stesso “ma cosa me ne frega di essere Buffon?”. È stato solo un episodio?
«Era la stagione 2003-2004. La Juventus era senza obiettivi. Mi sentivo solo come mai prima, non ero fidanzato, mi rincoglionivo davanti a Internet. Sono precipitato nel vuoto, non riuscivo a ghermirmi. Nel letto mi stringevo la testa alle ginocchia e piangevo. Non mi hanno salvato né il calcio né l’analista. Ho cominciato a leggere, a visitare mostre d’arte, a interessarmi a quanto accadeva nel mondo. Tre mesi dopo assaporavo i primi frutti di un mio personalissimo Rinascimento. Sa, a scuola ero bravo. Gli insegnanti mi hanno sempre riconosciuto una certa proprietà di linguaggio. Alla soglia dei trent’anni mi sono arrabbiato con me stesso e ho cominciato una ricerca di legittimazione culturale. Ogni giorno compro due quotidiani più la Gazzetta dello Sport durante i ritiri, ho letto molti libri sulla storia degli anni di piombo e sulle bande criminali italiane da Cavallero alla Magliana, i romanzi della Fallaci ma anche l’ultimo saggio di Tremonti, una biografia di Renzi e, lei mi prenderà per pazzo, un manuale di programmazione neurolinguistica».
Chi è oggi Buffon secondo Buffon?
«Un uomo sereno con una moderata paura dell’avvicinarsi dello stop. Ma penso che dopo sarà felice perché potrà studiare il cinese e amare le persone care che lo hanno avuto poco accanto. Non farà l’allenatore».
La bellezza è difficile da ricordare e da descrivere. Quali sono state le sue migliori parate?
«Amichevole Italia-Paraguay, aprile 1998 al Tardini di Parma. Cesare Maldini mi fa entrare nella ripresa al posto di Peruzzi e prendo subito gol per una deviazione di Costacurta. Su un calcio d’angolo Brizuela calcia fortissimo a un metro dalla linea di porta eppure riesco a deviare il pallone con un balzo prodigioso. Mi tiro su e mi urlo: questa solo te la potevi prendere. Spareggio per la Coppa Campioni tra Inter e Parma, maggio 2000: perdiamo 3-1, ma tolgo da sotto l’incrocio una conclusione di Recoba. Infine, la finale di Champions del 28 maggio 2003 tra Juventus e Milan a Manchester: colpo di testa di Inzaghi da pochi passi. Sono tutte su Youtube».
A trentasei anni contano più i riflessi o l’esperienza?
«Le motivazioni. I riflessi si appannano. Alla mia età non si migliora più, è meglio ridurre il lavoro tecnico e curare maggiormente la prevenzione degli infortuni, l’alimentazione e l’attività in palestra. Certo, non sarei più in grado di reggere gli allenamenti di vent’anni fa. Oggi però il calcio è soprattutto specializzazione».
Come vive in campo quell’attimo di paura e sospensione che c’è nel momento di un tiro in porta?
«Lo avvertono gli spettatori, non io. L’ansia sale sulle punizioni e sui corner, in quei dieci secondi in cui il gioco si ferma».
Che cos’è l’imponderabile?
«La traiettoria di un tiro che cambia improvvisamente, cosa che avviene spessissimo coi nuovi palloni leggeri, specie quando devi andarli a prendere sopra la testa. Oggi i portieri migliori sono quelli più bravi nel respingere, non nella presa».
Quanto valgono le sue mani e i suoi guanti?
«Ho mani belle, dita lunghe: eredità di mio padre. Uso gli stessi guanti da dieci anni, si può dire che li progetto io: non troppo stretti per lasciare libertà di movimento alle mani e con un lattice di bassa aderenza per sentire il pallone, quelle poche volte che mi riesce di bloccarlo».
Quali sono la cosa più importante che una squadra pretende dal suo portiere e il gesto più difficile da compiere in partita?
«Trasmettere sicurezza al pubblico».
E lei che cosa vuole dalla società che la stipendia?
«Che accetti il mio ruolo di leader e non mi chieda di fare la riserva. Non sopporterei di stare in panchina».
Quali colleghi ha più ammirato?
«L’audacia di Seba Rossi e Schmeichel, l’esplosività di Peruzzi, l’eleganza di Marchegiani, la classe di Antonioli e Pagliuca, i riflessi di Toldo e Van der Sar».
Gli attaccanti più temuti?
«Ronaldo, Cristiano Ronaldo, Messi ma soprattutto Bobo Vieri».
Louis Thomas ha quasi sette anni e David Lee presto cinque. Sono i suoi figli. Qual è la domanda che le fanno più spesso?
«Papà, quand’è che smetti di giocare?».
Teme che possano deluderla?
«Spero che lo facciano, anzi, devono deludermi. La perfezione mi ha sempre infastidito. Bisogna sbagliare per poter crescere».
Il portiere è un animale solitario?
«È un introspettivo. Ho meritato la solitudine con gli anni, ma è una solitudine pratica fatta di pudore e riservatezza. È la giusta distanza. Nei ritiri dormo da solo, è un desiderio e una necessità psicologica. Non sopporto di convivere con qualcuno che tiene accesa la tv. Ho sempre un quaderno con me: annoto i miei pensieri, il riassunto di un libro, il significato dei vocaboli che non conosco. Gli ultimi tre sono forastico, stertoroso e disamistade. Voglio imparare a parlare».
Lei ha qualche tatuaggio come la quasi totalità dei suoi colleghi calciatori?
«Nemmeno uno. Ricordi e simboli sono tutti nella mia testa».
Dario Cresto-Dina