Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  giugno 01 Domenica calendario

L’INCONSCIO BATTE LA COSCIENZA


«Oh la mente, la mente ha montagne; precipizi/ a picco, spaventosi, da nessuno penetrati. Può crederli da/ poco solo chi mai vi fu sospeso. E la nostra poca resistenza/ non può a lungo occuparsi di quei dirupi e quegli abissi». Sono versi — dagli Ultimi sonetti di Gerard Manley Hopkins, poeta ottocentesco da cui si irradia tutto il Novecento sperimentale — che condensano in un’unica visione le profondità psichiche che ci minacciano e la necessità, se non di rimuoverle, almeno di velarle.
Nello stesso periodo — il secondo Ottocento — in cui vengono scritti quei versi, il medico-neurologo Theodor Meynert — allievo del grande patologo Rokitansky alla scuola «darwiniana» di Vienna — studia i rapporti conflittuali tra le pulsioni «inconsce e istintive» del cervello rettiliano e il «comportamento riflessivo» (il controllo) della corteccia, evolutivamente più recente; una dialettica che Sigmund Freud (allievo sia di Rokitansky che di Meynert) tradurrà nella lotta tra Es (Id) e Super-Io, combattuta sul ring dell’Io.
Sganciandosi dai maestri, Freud tenderà a scorporare sempre più la «realtà psichica» dai suoi correlati neurali: ma troppo spesso si dimentica come lui stesso — per esempio in un passaggio di Al di là del principio del piacere — ritenesse possibile, nel giro di «qualche decennio», un avanzamento della ricerca neurobiologica tale da far crollare, e riassorbire in sé, l’«artificioso edificio» della psicoanalisi. E un secolo dopo, in effetti, constatiamo come le neuroscienze — specie nell’ottica evoluzionistica innescata proprio dalla scuola di Vienna — siano arrivate a riformulare e correggere tante intuizioni freudiane, a partire da quelle, decisive, sull’inconscio: basta leggere, al riguardo, i libri recenti di neuroscienziati come David Eagleman, Christof Koch o Lionel Naccache.
A un primo impatto, l’«inconscio cognitivo» descritto in questi libri sembra limitarsi alla dimensione meccanico-operativa e patire un deficit rispetto a quello affettivo-emotivo (più vasto) della psicoanalisi. Un esempio è la distinzione tra le decisioni «intuitive» e automatiche e quelle più riflessive e lente: tra il «bestiario di processi senso-motori specializzati» in cui l’azione precede il percetto (vedi il centometrista che sente lo sparo dopo aver mosso la prima falcata) e operazioni mentali complesse che implicano attenzione (moltiplicare 17x24). Eppure, già a questo livello, emergono diversi aspetti sorprendenti: il fatto che la coscienza venga accesa solo quando necessario, per evitare un dispendio energetico (leggi metabolico); i limiti del libero arbitrio, dato che veniamo a conoscenza di molte nostre scelte «a cose fatte»; e la conseguente necessità — se una scelta non è una risposta improvvisata, ma una selezione tra opzioni depositate a monte nel cervello dall’evoluzione, dai geni e dall’apprendimento — di alimentare il ventaglio delle opzioni stesse sia con schemi motori (per le decisioni intuitive e i compiti automatici) sia con nozioni, concetti e «pensiero critico» (per le elaborazioni complesse).
Andando più in profondità, vediamo come questa fluida continuità-contiguità tra coscienza e inconscio — e tra i loro correlati neurali — si estenda a dinamiche più articolate e creative, che immettono in una dimensione specificamente freudiana. Un esempio è dato dalle rivelazioni oniriche di tanti scienziati, come quella (un serpente che si morde la coda) con cui Kekulé intuisce la struttura dell’anello benzenico. Si tratta infatti di casi classici in cui l’impostazione di un problema da parte dell’attività cosciente delega all’inconscio il peso di fitte permutazioni-combinazioni (incubazione), protratte fino a quando — al momento dell’eureka — quel brulichio silente riemerge alla coscienza con la soluzione.

Del resto, si può seguire la presa cosciente anche nella direzione inversa e più consueta (dal sonno senza sogni alla percezione dell’ambiente): vedi l’adagio d’apertura della Recherche proustiana, in cui il Narratore — svegliandosi nel pieno della notte — delinea prima il lento formarsi di un sentimento dell’esistenza «nella sua semplicità primaria», così come freme «nelle profondità di un animale»; e poi — dopo uno spaesamento spaziotemporale — la messa a fuoco delle immagini confuse di qualche lampada a petrolio e di alcune camicie, tese a ricomporre «i tratti originali» del suo io.
È una descrizione bottom-up dei gradi di coscienza — dove risalta, oltretutto, la nostra continuità filogenetica con altre specie — che insieme al sogno di Kekulé disloca la coscienza nella veglia come nel sonno, mostrandola come uno stato (un processo) in cui gli oggetti mentali non vengono «generati», ma «modulati» dall’ambiente, esterno o «interno» (il cervello stesso) che sia. Cioè uno stato (un processo) come aggregato di un minimo di informazione selettiva e sincronizzata (a livello talamo-corticale) che si staglia sullo sfondo per un minimo di tempo necessario, con «scene» che vanno da ¼ di secondo a 20 secondi (tempo medio 3 secondi), poi «cucite» dalla corteccia in un’unità illusoria. Il tutto somiglia a un’orchestrazione, estesa dal silenzio di un’informazione «troppo poco» integrata (il sonno senza sogni) alla cacofonia assordante di un’integrazione eccessiva (l’attacco epilettico), passando per una scala di modulazioni intermedie (di sfumature) pressoché illimitata.
In questa prospettiva, è più facile tentare un confronto tra le fluttuazioni inconscio-coscienza (coi reciproci feedback) a livello neurobiologico e psicologico-analitico. Cercare di ricondurre, ad esempio, l’idea di «rimozione» del ricordo sgradevole anche a un danneggiamento dell’ippocampo (responsabile della memoria esperienziale) in seguito alla sovrapproduzione di ormoni steroidei in situazioni stressanti. Oppure, collegare il controllo del «Super-io» anche all’attività del quadrante ventromesiale dei lobi frontali, la cui lesione — vedi il caso famoso di Phineas Gage raccontato da Damasio — libera ogni inibizione. O ancora, per tornare al sonno e al sogno, trovare nella riduzione funzionale proprio dei lobi frontali un nesso col dissolversi della «censura» (e quindi con la liberazione di pulsioni sessuali e/o aggressive); e nell’inattività del cervelletto la spiegazione del movimento «mentale», a corpo immobile (o quasi).
Anche se questo avvicinamento disciplinare — fatalmente prematuro — deve scontare sfocature e reciproche incomprensioni. Non a caso nel bilancio conclusivo di Naccache (neurologo alla Salpetrière, antico regno di Charcot), l’inconscio freudiano e quello neuroscientifico mostrerebbero possibili convergenze (l’incidenza all’attenzione nel passaggio inconscio-coscienza) e altrettante divergenze, a partire dal carattere non decisivo del linguaggio in quello stesso passaggio, dato che si hanno molti stati di coscienza «non verbale».
La sola certezza è che le neuroscienze — confermando o correggendo le impostazioni freudiane — arricchiscono ulteriormente l’incidenza dell’inconscio, la forza soggiacente che — ricordava Giovanni Jervis — ci rende «meno liberi» ma anche «meno stupidi» (e alla fine meno indifesi) di quanto crediamo. In fondo, anche per Hopkins le montagne e i precipizi della mente sono interni a una tettonica mobile e mutevole, capace di plasmarsi in paesaggi percorsi da infinite forme di «bellezza screziata». Quello che conta, con l’inconscio, è alimentarlo: impedire che per inerzia, conformismo o abitudine non si riduca (insieme alla coscienza) al deserto di un pianeta senza vita.