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 2014  giugno 01 Domenica calendario

«DAL CONTRATTO CON GM A CHRYSLER, ECCO I MIEI PRIMI 10 ANNI ALLA FIAT»


Sono passati dieci anni da quando Sergio Marchionne è arrivato in Fiat, sconosciuto ai più, pareva un’altra meteora dopo i numerosi amministratori delegati che si erano succeduti, ad un ritmo che non superava i 24 mesi. Il primo periodo in trincea, ad analizzare i numeri, disastrosi, di un’azienda che se non si fosse chiamata Fiat sarebbe fallita. In incognito visitava filiali e fabbriche, cercava sostegno in Gianluigi Gabetti, un pilastro dell’azienda e in John, il giovane erede, a cui era toccato il ruolo più pesante. Nel gennaio 2005, Marchionne entrava in fila con gli altri al Salone di Detroit. Voleva bere un caffè, allora c’era solo lo stand Ferrari che ospitava, defilata, una Maserati. Nessuno lo riconobbe: quando mai si era visto un amministratore delegato Fiat con un cappellino a visiera e senza il codazzo di portaborse? Di fronte all’opulenza dell’industria americana che ostentava stand faraonici e show hollywoodiani (ma dopo tre anni era già in bancarotta), a chi gli chiedeva, con angoscia «la Fiat come riuscirà a combattere questi colossi?» lui rispondeva: «Ho bisogno dell’aiuto di tutti, dell’intero Paese, ma vi assicuro che ce la faremo».
Marchionne ha mantenuto la sua promessa, a dispetto dello scetticismo che ancora lo circonda. Prima di arrivare a Detroit era passato da Sullivan&Cromwell, uno dei più importanti uffici legali di New York, con il fascicolo che legava la Fiat, con un accordo che si è rivelato capestro per General Motors, chiedendo di trovare la soluzione per arrivare ad un divorzio consensuale. A San Valentino la Fiat incassò due miliardi di dollari che le consentirono di «guardare avanti» ed era tornata tutta italiana. Al Motor Show di Ginevra, nello stesso anno, i concorrenti, fino ad allora convinti della sparizione di Fiat, cominciarono a temerlo e lui, dietro ad una colonna, nascosto a fumare l’ennesima sigaretta, rideva, dicendo che «si sono già spartiti la nostra fetta di mercato, ma la Fiat c’è, più forte di prima». Vestiva ancora con giacca e cravatta — sempre allentata — sottolineando però che non sarebbe mai riuscito «a competere con l’eleganza di Luca» (Montezemolo). Ma non è stata questa la ragione per cui si è infilato il famoso maglione (nero, ordinato su internet). La sua è stata una scelta formale, simile a quella dei manager giapponesi che indossano la stessa divisa degli operai.
Il 4 luglio 2007 usciva la nuova 500 e Marchionne, passeggiando per Torino, veniva fermato per firmare autografi. «Io sono in primo luogo un metalmeccanico, un imprenditore che deve fare utili, per rispetto alle 300 mila persone che lavorano per noi», sosteneva, mentre già si profilava la crisi del 2008. Certo, di carattere non è perfetto, a volte è antipatico, prepotente, irascibile, ruvido anche con chi gli è vicino, ma apprezza chi gli tiene testa, sente chi ama la Fiat veramente e non tollera chi si piange addosso. L’uscita di Luca De Meo è stata per Marchionne un vero dolore: «Per me era come un figlio». Difende la sua squadra: «Non voglio essere celebrato, capito? Io non avrei fatto nulla senza di loro». La sciarpa grigia, di lana pesante che indossa d’inverno, criticata da ogni fashion stylist, è simbolo di questo legame, è un regalo di un gruppo di dipendenti, indossandola sente il calore dell’affetto.
Intervista sempre lui le persone che devono assumere una posizione chiave in azienda. Quando firmò, a Washington, l’acquisizione del primo 20% di quote della Chrysler, alle 5 di mattina, mandò in Italia, mantenendo un’altra promessa, un messaggio sul cellulare: «Abbiamo firmato», manifestando la sintetica gioia tipica dei suoi messaggi, per aver ribaltato tutte le ipotesi più nefaste. Passata l’euforia, Marchionne, poco dopo, si lasciò crescere la barba, segno di un travaglio interiore, il momento più duro, doveva trovare soluzioni in breve tempo, raggiungere un’intesa con i sindacati, affrontare un cambiamento sociale per l’Italia. Ricomparve, con il volto pulito, dopo aver restituito il debito al governo americano, in anticipo sui tempi previsti. In primavera a Ginevra traspariva la sua felicità per aver acquisito la totalità di Chrysler: «Mi avete mai visto così? La Fiat ha un futuro sicuro». In Usa, il sabato mattina va a fare la spesa da Costco, gli operai che lo incontrano si chiedono come sia possibile che il ceo di FCA sia uno di loro, per questo lo rispettano. Ora si avvicina il tempo di quotarsi a Wall Street, vorrebbe già essere alla fine del piano industriale, nel 2018, con l’Alfa Romeo che, come la Maserati, ha conquistato il mondo, con tutti gli stabilimenti in piena attività, il rientro dei cassaintegrati e nuove assunzioni. Ha promesso di restare perché «abbiamo basi solide, diventeremo il settimo costruttore del mondo, con nuove alleanze, anche il sesto».