Fabrizio Roncone, Corriere della Sera 1/6/2014, 1 giugno 2014
QUANDO LA SEGRETARIA CADE IN DISGRAZIA INSIEME AL SUO CAPO
È cambiato anche il mestiere delle segretarie. L’altro giorno per quella di Pierluigi Bersani, Zoia Veronesi, i giudici di Bologna hanno chiesto quattro mesi e venti giorni di reclusione (pagata dalla Regione Emilia-Romagna, dal 2008 al 2010 avrebbe in realtà lavorato esclusivamente per l’allora segretario del Pd). Quella di Claudio Scajola è agli arresti domiciliari, indagata per gli stessi reati del capo.
Segretarie che finiscono dentro storie miserevoli.
Segretarie che, appena possono, il capo lo mollano.
Ma ci fu un altro tempo in cui le segretarie, in un miscuglio di fedeltà assoluta e misticismo, divennero figure tragiche ed emblematiche della vita politica del Paese.
Per entrare nell’ufficio di Giulio Andreotti, al terzo piano d’un palazzetto di piazza San Lorenzo in Lucina, a Roma, dovevi passare sotto lo sguardo severo di Vincenza Enea Gambogi. Nel riverbero di una lampada, ti osservava in silenzio. Seduta dietro una scrivania piena di carte e con tre telefoni, una bambolina di stoffa e un candelabro. Alle spalle, la libreria, con l’enciclopedia Treccani e la collezione rilegata di Civiltà cattolica , la rivista dei gesuiti.
Se volete provare a immaginarne i tratti del volto, pensate a Piera Degli Esposti, che la interpretò nel film «Il Divo». Una donna astuta e dura (giovanissima, era stata fascista e, dopo la Liberazione, era finita in carcere, accusata di aver collaborato con la Repubblica di Salò).
Morì, a 82 anni, il 21 settembre del 1999. Racconta Enzo Scotti: «La chiamavamo “l’ombra”. Personaggio riservatissimo. Senza parola, forse senza corpo. Non manifestava né antipatie, né simpatie». E se un colloquio si prolungava troppo, ricorda Paolo Cirino Pomicino, «entrava nella stanza di Giulio e, che ci fosse un ministro o un cardinale, annunciava secca: “Il Presidente ha un altro impegno”». Quando Tina Anselmi, presidente della Commissione d’inchiesta sulla P2, la interrogò chiedendole se avesse mai visto nell’ufficio di Andreotti gli iscritti negli elenchi di Licio Gelli, lei rispose «no», aggiungendo, con voce tagliente: «Qualcuno di voi, invece, nell’ufficio del Presidente, l’ho incontrato».
Segretarie che vedevano, sapevano, tacevano.
E se non tacevano, usavano — anche loro — i toni risoluti del potere.
Vincenza Tomaselli, la storica segretaria di Bettino Craxi, per settimane cercò di negare l’innegabile. Remissiva in apparenza, il viso tondo, due occhi con pupille come mosche impazzite, una psiche di ferro.
(Stralcio di interrogatorio in Corte d’Assise al processo Cusani.
Antonio Di Pietro, con il tono del pm cattivo, visto e rivisto mille volte alla tv: «Insomma, questi soldi, Craxi glieli dava... sì o no?».
La Tomaselli: «Sì, Craxi mi dava soldi in contanti, soldi che mettevo sui conti...».
Di Pietro: «E che conti!... Otto miliardi e 900 milioni in 8 anni... Spesucce d’ufficio?».
Tomaselli: «La politica costava moltissimo» ).
Coimputata in gran parte degli atti di corruzione attribuiti a Craxi, la Tomaselli finì per patteggiare tutte le accuse. Resta memorabile ciò che disse al settimanale Panorama , reclusa nel carcere di San Vittore: «Cosa farò quando uscirò da qui? Che domande... Farò la segretaria di Craxi».
Di tutt’altro tenore, per capirci, i toni che sta usando Roberta Sacco, la quarantatreenne segretaria di Scajola, interrogata dai pubblici ministeri di Reggio Calabria: «I miei rapporti con Scajola sono sempre stati lavorativi, mai confidenziali. Sono una persona semplice e sportiva. Cos’altro posso dirvi?» (e poi, tranquillamente, inizia a vuotare il sacco).
Mentre sembra ancora di sentirla Marinella Brambilla, la storica segretaria di Silvio Berlusconi, quando — nel flashback siamo di nuovo dentro Mani pulite — interrogata da Piercamillo Davigo, incalzata, al termine di un ruvido botta e risposta, dice: «Senta, mi ascolti bene: le cose stanno esattamente come le ho detto e se crede che io mi faccia intimidire dalle sue insistenze si sbaglia di quel po’...».
Un’altra donna che, per anni, ha vissuto il lavoro come una missione religiosa. Entrando nella vita del Cavaliere agli inizi degli anni Ottanta, e restandoci fino a pochi mesi fa (sua madre era la governante di via Rovani, la prima casa del Berlusconi imprenditore: gli segnalò la figlia appena diplomata, e lui la assunse). Scrive Veronica Lario nel suo libro «Tendenza Veronica» (2004): «Marinella è una delle poche persone sinceramente affezionate a Silvio». Affezionata e fedele, da Arcore a Palazzo Grazioli, sempre presente, sempre silenziosa, dal primo appuntamento con Gianni Letta all’amicizia con Bettino Craxi, dai trionfi di Canale 5 ai successi in politica, tra feste e incontri di ogni tipo. Testimone di tutto e, per questo, anche testimone in molti processi.
Venerdì, nei corridoi del tribunale di Bologna, Zoia Veronesi, la segretaria di Bersani accusata di «truffa aggravata», ha detto ai cronisti: «Sono sempre stata fiduciosa. Male non fare, paura non avere».
Ma non aveva l’aria di una tanto devota all’ex capo.