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 2014  giugno 01 Domenica calendario

Il petrolio dice addio al dollaro (1 marzo 2008) L’apertura di una borsa petrolifera nel porto franco di Kish, nello stretto di Hormuz, con relative contrattazioni, sin dal primo giorno, in rial (moneta locale) oltre che in rubli ed in euro, era stata considerata, fino a poco tempo addietro, da molti analisti e da esperti energetici occidentali con molto scetticismo, quasi con degnazione, in una miscellanea di considerazioni dove ad una certa sufficienza di facciata si accompagnava quasi la volontà di esorcizzare un evento, in fondo, assai temuto

Il petrolio dice addio al dollaro (1 marzo 2008) L’apertura di una borsa petrolifera nel porto franco di Kish, nello stretto di Hormuz, con relative contrattazioni, sin dal primo giorno, in rial (moneta locale) oltre che in rubli ed in euro, era stata considerata, fino a poco tempo addietro, da molti analisti e da esperti energetici occidentali con molto scetticismo, quasi con degnazione, in una miscellanea di considerazioni dove ad una certa sufficienza di facciata si accompagnava quasi la volontà di esorcizzare un evento, in fondo, assai temuto. Sono state addotte, per vario tempo, motivazioni con una loro logica intrinseca ed altre più o meno riconducibili a propaganda di comodo. Che un ostacolo potesse derivare dalla mancanza di un “marker”, ossia di uno standard per la definizione del prezzo del petrolio in euro, nel mentre ne esistono ben tre, il Norway Brent Crude, il West Texas Intermediate Crude e lo United Arab Emirates, tutti denominati in dollari, ebbene, rientrava nella logica delle cose così come ci poteva pure stare che non potesse andare a regime, in tempi relativamente brevi, una borsa ovvero un organismo complesso che abbisogna di infrastrutture ad hoc per poter essere in grado di funzionare. Non mancavano tantomeno le sottolineature sarcastiche laddove l’apertura della borsa veniva ricondotta a semplice mezzo di pressione utilizzato da Ahmadj Nejad allo scopo di ricattare la comunità finanziaria internazionale. Fatto sta che domenica 17 febbraio la borsa di Kish ha aperto i battenti e, seppure la prima giornata ha visto la sola contrattazione di prodotti petrolchimici, di qui a breve seguirà la commercializzazione del petrolio e del gas naturale. L’apertura dell’Iranian Oil Borse è stata definita da molti come l’equivalente di una vera arma di distruzione di massa diretta contro il sistema finanziario americano ed infatti il dato saliente da cogliere è che là dove sono state accettate divise come il rublo e l’euro sono stati, parimenti, rifiutati come moneta di scambio i dollari statunitensi. Il contraccolpo, bisogna convenire, è notevole e può bastare a farlo considerare tale il dato oggettivo che la maggior parte degli idrocarburi estratti viene venduta sulla piazza finanziaria di New York (Nymex) e su quella di Londra (IPE), tutte e due sotto rigido controllo di capitale americano (BP, Godman Sachs, Morgan Stanley) e che la valuta di riferimento è da sempre il dollaro. Tutto questo, come diffusamente evidenziato in tanti altri scritti, va ad inserirsi in un contesto storico ed economico che prende avvio con gli accordi di Bretton Woods del luglio del 1944, in virtù dei quali il dollaro americano diveniva moneta di riserva internazionale, potendo esercitare quindi una sorta di signoraggio sul resto del mondo costretto a rifornirsi di dollari per qualsiasi transazione economica o commerciale. Taluno è ricorso ad un neologismo, per definire meglio la dimensione, parlando esplicitamente di usurocrazia che, se solo ci si riferisce ” al valore annuale delle transazioni di petrolio, ossia agli acquisti di greggio fisico più gli scambi di futures e di opzioni”, nel solo 2006 ha avuto modo di esercitare la propria incidenza su un ammontare di quarantamila miliardi di dollari” (dati tratti dal libro “Euroil” di Conti e Fazi). Ma questa “imposizione statunitense” ha prodotto nel tempo, come è naturale che avvenisse, insofferenza, avversione che in alcuni contesti sta dando luogo a veri fenomeni di ostracismo. E sì che segnali sul delinearsi di nuove tendenze se n’erano già avuti: la nascita del Banco del Sur che si pone, operativamente, già dal 2008 come alternativa, seppure a livello regionale, al Fondo monetario internazionale ed alla Banca mondiale - organismi che, sempre partendo dal fatidico Bretton Woods, sono serviti a imporre linee di sviluppo economico organiche agli interessi del più forte (gli USA) - e che da la possibilità ai paesi aderenti di non dover più ricorrere al FMI o alla BM per avere prestiti denominati in dollari e si propone di pervenire, in tempi non eccessivamente lunghi, anche nell’area sudamericana alla creazione di una moneta unica regionale. Un altro evento da interpretare con la dovuta attenzione si era verificato nell’aprile del 2007 a Doha, dove si era cercato di dar vita ad un “consorzio del gas”, abortito per divisioni e trasformismi di varia natura, che tuttavia aveva consentito l’emergere di un gruppo simile all’OPEC, costituito da Argentina, Venezuela e Bolivia, fautore di un mercato del gas in grado di operare da controparte a quello americano. Ma, nel frattempo, ad assurgere al ruolo di indiscusso leader del mercato mondiale del gas è stata la Russia che ha a tal punto ipotecato tale ruolo da poter comodamente prescindere dal consorzio sopra citato in quanto, già adesso e da solo, Gazprom (gigante energetico russo) sarebbe in grado, se solo lo volesse, di determinare i prezzi mondiali. D’altronde l’obiettivo dichiarato di questa grande compagnia è quello di diventare il numero uno nel mondo per fornitura di energia e dati questi ambiziosi programmi non si vede la ragione per cui i russi dovrebbero continuare a pagare questa sorta di “pizzo” utilizzando per di più una moneta in rapida picchiata quale il dollaro tant’è che, a detta dell’agenzia di stampa russa Ria Novisti, il rublo potrebbe essere utilizzato come valuta per gli scambi petroliferi. Nella sua intrinseca logica lo stesso discorso può essere esteso alla Cina, al Venezuela, all’India, alla Libia e ad altri paesi sempre più insofferenti al monopolio USA. Inserita in un contesto simile la borsa petrolifera di Kish assume una rilevanza straordinaria. Siamo in presenza, tuttavia, di un significativo scarto, tra gli interessi in gioco e la presa di posizione dell’Iran, che lascia quasi intravedere i connotati di una sfida; sfida che, da solo, non avrebbe certamente lanciato se non si fosse fatto forte di rassicurazioni provenienti da talune potenze imperialiste e la considerazio ne si fa tanto più pertinente se raffrontiamo il contesto attuale con quello che ha portato alla guerra preventiva scatenata da Bush contro l’Iraq di Saddam Hussein il quale aveva avuto l’ardire, nell’ottobre del 2000, di convertire in euro, attraverso la banca francese Bnp Paribas, il fondo iracheno, costituito presso l’ONU, per finanziare l’acquisto di cibo in cambio di petrolio e creando, di fatto, i primi petroeuro. Si era allora scatenata una guerra che dura tuttora e che verosimilmente costituisce, unitamente ad una situazione economica statunitense di assoluta criticità, uno dei motivi per cui non si è dato avvio ad una nuova guerra. I contesti, c’è da tenere in debito conto, sono completamente diversi in quanto l’Iran può contare su partnership che potrebbero rovesciare taluni progetti di isolamento e coinvolgere in un eventuale nuovo conflitto degli attori non propriamente di secondo piano. Esistono infatti corposi accordi di cooperazione tra il governo di Ahmadi- Nejad e la Gazprom che è impegnata a sviluppare insieme agli iraniani lo sterminato giacimento South Pars, un supergiacimento che contiene quasi il 10% di tutte le riserve di gas del pianeta e con una autonomia di almeno 40 anni a decorrere proprio dal 2008. In termini concreti ciò vuol dire che il gigante russo aumenta ancor di più il controllo sul mercato globale del gas mentre, di converso, l’Iran acquisisce tecnologia e royalties da poter destinare al finanziamento della propria economia. Ma v’è di più: gran parte della produzione del South Pars è destinata all’Asia in quanto di qui al 2011 è previsto il completamento del “gasodotto della pace” che, attraverso il Pakistan, raggiungerà la Cina la quale, da parte sua, ai livelli attuali di crescita annuale ha bisogno di rifornimenti energetici in grande quantità ed alla bisogna provvede con la stipula di accordi diretti con i paesi produttori. Lo scenario che si va delineando è quindi sempre più inquietante laddove il modo per risolvere questioni di tale portata, l’unico modo che il capitalismo conosce, rimane come sempre la guerra.