Sergio Rizzo, Corriere della Sera 1/6/2014, 1 giugno 2014
ROMA —
Che tirasse una brutta aria si sapeva da tempo. Se n’era accorto l’ex tesoriere del Pd Antonio Misiani, che annunciando di aver dovuto stringere la cinghia, un anno fa aveva fatto venire i brividi a qualcuno con una battuta alla Zanzara di Radio24 : «L’ultima cosa che farò è licenziare…». Già: l’ultima. Soprattutto se n’era accorto, eccome, il tesoriere del Popolo della Libertà (quando quel partito esisteva ancora), Rocco Crimi, che qualche mese prima aveva dovuto spedire una letteraccia agli eletti. Parlamentari e consiglieri regionali si erano impegnati a versare nelle casse del partito rispettivamente 800 e 500 euro al mese, ma molti di loro facevano il pesce in barile. Risultato, alla fine del 2011 c’erano 4,6 milioni di arretrati. Forse pensavano che qualcuno prima o poi avrebbe provveduto a tappare il buco. E chi, se non il capo, colui che i soldi li aveva sempre tirati fuori senza battere ciglio? Una valanga, come risulta dai bilanci di Forza Italia, che negli ultimi cinque anni prima di risorgere aveva accumulato perdite per 149 milioni e debiti per 61. Il tutto, coperto da una fideiussione personale di 174 milioni. Di chi? Ma del Cavaliere, ovvio. Le spese correvano senza freni, anche dopo. Tanto che Crimi, di fronte all’eventualità di rinunciare alla seconda tranche di finanziamento prevista per il 2012, per destinarla ai terremotati emiliani, veneti e lombardi, per poco non ebbe un mancamento. Sfido: molto prima di incassarli, quei soldi li aveva già tutti scontati in un istituto di credito. Addirittura nel 2009. E adesso, eravamo nel 2013, chi avrebbe tirato fuori i 20 milioni che sarebbero mancati all’appello per renderli alla banca?
Il bello è che allora i famigerati rimborsi elettorali che avevano ingozzato i partiti per tanti anni erano stati soltanto dimezzati. Ma ben presto sarebbe arrivata la pur discutibile (per certi aspetti) legge che invece li avrebbe azzerati del tutto entro il 2017. Nonostante questo le macchine dei partiti hanno continuato a bruciare risorse ben più rilevanti delle reali disponibilità. A sinistra come a destra. L’agenzia Adnkronos ha rivelato che «i debiti ereditati dalla gestione Bersani ammonterebbero a circa 9-10 milioni, a fronte del 7 previsti finora». Giovedì il consiglio federale della Lega Nord, gestione Matteo Salvini, ha preso atto che le casse del partito sono vuote: bei tempi, quando Francesco Belsito investiva i rimborsi elettorali in diamanti, lingotti d’oro e fondi offshore. Mentre Silvio Berlusconi avrebbe fatto sapere che da vent’anni a questa parte si è svenato fin troppo. Tommaso Labate ha raccontato su questo giornale che l’avventura politica sarebbe costata al Cavaliere qualcosa come 98 milioni: ben oltre metà della fideiussione da 174 milioni prestata alle banche. Ma se investire tutti quei soldi poteva forse essere giustificato dal suo punto di vista quando c’era in ballo Palazzo Chigi, ora le cose sono radicalmente cambiate. L’anziano leader, azzoppato dalla condanna per frode fiscale e sotto la spada di Damocle delle altre inchieste giudiziarie, guida ormai il terzo partito italiano, che alle Europee del 25 maggio ha raggranellato appena il 40 per cento dei voti conquistati dal Pdl alle vittoriose elezioni politiche del 2008. E a lui giocare in difesa non è mai piaciuto tanto. Aggiungiamo che i conti delle aziende di famiglia non sono più così brillanti come in passato e il quadro è completo. La situazione, insomma, potrebbe essere ancora più difficile di quanto non appaia: circolano persino voci di qualche difficoltà nel pagamento degli affitti per i locali occupati dal partito di Berlusconi a palazzo Grazioli.
La verità è che gli allarmi lanciati più volte dai tesorieri in questi ultimi due anni sono caduti quasi sempre nel vuoto. E quando si è deciso di tagliare, non si è tagliato abbastanza. Pochi mesi fa il Cavaliere ha inaugurato la nuova sede di Forza Italia nella centralissima piazza San Lorenzo in Lucina, a Roma, celebrata dal Giornale di famiglia con un articolo nel quale si descrivevano ambienti sfarzosi, come «quello che è stato rinominato il Salone degli Specchi, 150 metri quadrati di stucchi, lampadari di cristallo, soffitti affrescati o a cassettoni d’epoca…». Passi che il costo di quei locali prestigiosissimi della «Roma ladrona», per dirla con i più virili esponenti del partito di Roberto Calderoli, che da ministro della Semplificazione li occupava senza un lamento, sia di «appena» un milioncino l’anno, contro i 2,8 milioni della sede precedente in via dell’Umiltà. La domanda è se quella somma, oggi, è compatibile con la nuova realtà finanziaria. Interrogativo più che legittimo, se per pagare stucchi e lampadari di cristallo Denis Verdini propone una piccola tassa di 50 euro l’anno a carico di ciascun militante. Ed è una domanda da girare anche al Pd, che paga per la sede di via del Nazareno, subaffittata dalla Margherita ormai defunta dell’ex tesoriere Luigi Lusi, qualcosa come 1,3 milioni l’anno.
Il fatto è che il taglio dei finanziamenti pubblici non è stato preceduto, come invece doveva essere in tutti i partiti, da un serio piano di ridimensionamento degli esborsi cresciuti in modo abnorme negli anni della corsa all’oro. E non parliamo soltanto degli apparati, ma anche delle spese elettorali: che continuano a galoppare. Da un sistema politico che a distanza di 65 anni non è ancora stato in grado di dare applicazione all’articolo 49 della Costituzione, stabilendo i paletti entro cui i partiti possono e devono muoversi, è difficile però pretendere tanto. C’è solo da sperare che non finisca tutto in caciara, magari con qualche leggina ad hoc per salvare i bilanci in rosso. Un film, purtroppo, che abbiamo già visto.