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 2014  giugno 01 Domenica calendario

RODOLFO DI GIAMMARCO

ROMA
«PER ME QUELLO
di Paolo Sorrentino è un talento rinascimentale: dirige magnificamente, scrive divinamente, gioca a pallone che è un piacere, e fa una pizza che ti fa sognare» annota divertita Iaia Forte alias Trumeau, la madame-vedette leopardata con turbante ne La grande bellezza. Quest’attrice monstre e popolare che starebbe bene nelle opere a tinte forti di Viviani e nelle trame di Pedro Almodóvar, con inconfondibile voce rauca, volto intenso, occhi mélo, risata lazzarona e sensualità corposa, butta giù una lista delle identità assunte. «Mi manca solo di interpretare un animale, per il resto non mi sono fatta mancare niente. Sono stata suora per Carlo Cecchi e Pappi Corsicato, poi ne La monaca di Monza di Federico Tiezzi che m’ha fatto fare Gertrude e Ofelia in Amleto. Sto facendo la Moda nelle Operette morali di Mario Martone, dopo un’Elena nuda con Luca Ronconi, e adesso recito nei panni d’un uomo, ossia Tony Pagoda, in Hanno tutti ragione dal libro di Sorrentino. Ma ho alle spalle anche una regina Carolina, le donne di Molière, i personaggi eduardiani con Leo De Berardinis, una Medea di Emma Dante e una Molly Bloom di Joyce». Alla radice dello schizofrenico andare da un ruolo all’altro
di quest’eterna ragazzona nata a Napoli nel 1962 c’è un padre.
«Ho avuto un papà mitologico, morto a quarantott’anni quando io ne avevo quattordici, un uomo vitale e curioso che insegnava Ingegneria all’università, ma era appassionato di letteratura e di cinema, e io la mia formazione umanistica la devo a lui, che era tra i soci fondatori di un cineclub a Napoli, dove mi faceva vedere, con mia grande noia, film di Rossellini e Bresson mentre io avrei preferito andare in discoteca. Ma lui riuscì a forgiarmi come spettatrice
e aspirante attrice. Gli debbo un percorso di maturazione anche se difendo coi denti il mio slancio naturale in conflitto con l’adultità. Con la mia amica Patrizia Cavalli giochiamo ad assegnare alle persone un’età soggettiva prescindente dall’anagrafe reale. A Cecchi diamo quindici o sedici anni».
Poi ci sono le altre figure fondamentali della sua vita. «Per mia madre ho avuto un rispetto enorme. A noi tre figli ci ha cresciuto con sacrifici devoti, assecondando ogni nostro desiderio. Io non ero il tipo da salire sul tavolo a dire le poesie, ero un’adolescente agitata che cercava sempre un luogo dove
sfogare le energie, studiavo danza, e a Napoli avevo frequentato la scena sperimentale lavorando sul corpo, per trasferirmi a Roma a diciott’anni perché al Centro Sperimentale di Cinematografia davano una borsa di studio». Non aveva le carte tutte a posto, all’epoca. «Avevo una vocazione incerta, e una totale spudoratezza (che m’ha sempre salvato). Incontrai una figura decisiva, Giuseppe De Santis, che al Centro era direttore del corso di recitazione. La mia intesa scatta in genere con figure parapaterne o di fratelli maggiori: De Santis, Servillo, che per primo m’ha legittimata in scena, ma anche Ronconi che m’ha suggerito cose fondamentali, e prima di lui Marco Ferreri che m’insegnò l’anarchia e a fottermene delle convenzioni».
Il gusto del sodalizio artistico non le è venuto meno nella sfera privata. «Per dodici anni, dai miei ventitré anni, ho avuto per marito un attore, Roberto De Francesco, con me nelle Operette morali, poi sono stata per otto anni con un altro teatrante, Tommaso Ragno, ma ho capito che a un certo punto non si può più stare con artisti colleghi a condividere la parola “provino”, e ora da cinque anni sto con un sinologo, Davide Vona, quasi coetaneo, e dura, tra alti e bassi. Lui ha una casa sua, e io ho un “partner” in più, un’abitazione mia, che a Roma affaccia sui Fori, un traguardo per me che da piccola volevo fare l’archeologa, anche se ho un mutuo da pagare ancora per ventuno anni».
Iaia ha fatto parte di importanti storie del teatro di ricerca, è animale dello schermo e bestia da palcoscenico. «Campo di continue fughe e ritorni fra teatro e cinema. Lavoro a cicli con gli stessi registi. O con gli stessi compagni. Al Centro Sperimentale non ho mai imparato bene la dizione, era più importante incontrare coetanei con cui immaginare un altro cinema, guardare bene Bergman e Kurosawa (venne da noi al Centro, e io ho una foto che mi ritrae mentre gli do un buffetto), avere slancio, cambiare le regole. E mi gettai nel teatro. Ho avuto fortune sfacciate. Coi migliori registi. A Teatri Uniti conobbi un ragazzetto vivace, che era driver e assistente alla regia, un Sorrentino ventenne, spiritoso...».
Non s’è mai persa un fenomeno, un ciclone, un modello nuovo. «Mi soprannominarono “icona profana” nel primo film di Pappi Corsicato, Libera, prodotto con due lire, con exploit a Berlino». E ci furono Nichetti, Marco Risi, Tonino De Bernardi, Greeneway, e di recente l’amica Valeria Golino con Miele.
Ma si torna, fatalmente, a parlare di Sorrentino. «Lui m’ha dato due diamanti: il personaggio de La grande bellezza e, a teatro, il cantante neomelodico Tony Pagoda, di cui io intercetto un’anima femminile, dal suo romanzo. Figure che m’hanno dato allegria e orgoglio, che mettono al centro della poetica la persona, e una pietas per la solitudine. Ora con Hanno tutti ragione andrò a New York, poi a Washington e Detroit. Il teatro non è un luogo della verosimiglianza. Perciò leggo volentieri la Morante, la Ortese...». È già dentro a un gran bel progetto scenico che farà molto parlare: «Con la regia di Martone, con l’Orchestra di piazza Vittorio, farò nel 2015 la Carmen adattata anche da Enzo Moscato, per lo Stabile di Torino».
Trova il tempo per un ruolo anche nel repertorio della felicità? «Ho un umore
altalenante, della serie qui-e-ora. Dipende da un bellissimo libro, un divano e un caminetto acceso. Mentre l’infelicità ha varie sfaccettature (desideri privati non realizzati, persone che ami e non stanno bene, una giornata piovosa specie se sei meteoropatica come me). In compenso ci sono le cene coi tuoi amici cari, con cui ti fai tante risate». Napoli? «Napoli è l’infanzia e ciò che c’è di meraviglioso e di oscuro nell’infanzia, è memoria e io ho rapporti conflittuali con la memoria (mi accarezza e mi turba), è il ricordo dei fratelli minori e di mamma, della brioche del bar Cimmino, del palazzo Donnanna come luogo dei sogni, di certi odori della città (acqua di mare e frittura di pesce) ». Fissazioni? «Getto le cose, ho solo una collezione di ex voto d’argento, sono una non credente che spera ci sia qualcos’altro ». La politica? «Il vero atto politico è fare bene il proprio lavoro. Viviamo un periodo disastroso della storia, un’Apocalisse dove si fa una gran fatica. L’esistenza è invasa da burocrati». Le cose sane? «Gli abitanti di Venafro, vicino Matera, hanno protestato contro una serata pagata a Fabrizio Corona, diffondendo ciclostilati di contestazione, rivendicando una superiorità culturale». Zone nascoste? «Sono molto pudica, non riesco a individuare i miei segreti, occulti anche a me stessa. Non bisogna mai prendersi sul serio ma essere seri, non mi piace la volgarità, l’ambizione, la sopraffazione, mi piacciono le persone che non ostentano, che mi seducono, e non mi frega niente della bravura, voglio umanità ». Apprendimenti? «Da Cecchi la preziosità della specificità, da Martone il rigore e l’approfondimento, da Tiezzi la visione e anche un certo tipo di glamour pop, da Servillo la passione e il rispetto dell’impegno etico, da Ronconi la scoperta della maschera e del gioco dell’intelletto, da Corsicato l’assoluta libertà. Basta?». Basta.