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 2014  maggio 27 Martedì calendario

IL PARTITO-TUTTO DI MATTEO RENZI

E un giorno l’Italia si svegliò più europea dell’Europa, più speranzosa degli anglosassoni, e meno estremista e sfiduciata dei francesi. Si svegliò, alla fine di maggio del 2014, tra celebrazioni già unanimi del nuovo Uomo Nuovo e grida (poco convinte, invero) al complotto degli sconfitti, e scoprì di essere il paese che insieme dava la maggiore garanzia di continuità e promessa di cambiamento. Quantomeno, che manifestava una voglia di cambiamento esplicita senza declinarla come scetticismo, paura, o programmatico e concreto anti-europeismo. E vuoi vedere, azzarda qualcuno, che abbiamo perfino chiuso i conti col Novecento?
I dati sono ormai consolidati, e ci dicono di un’Europa in cui dalla Franca all’Inghilterra vince chi dice che l’Europa è la culla dei mali europei, l’incubatore della sconfitta dei popoli, la fondazione genetica di un melting-pot continentale che distrugge le purezze delle origini per darci in pasto alle miserie della storia e agli appetiti dei poteri transnazionali. Di una Germania che continua per la sua strada, sostanzialmente quella di Angela Merkel, e di un’Italia che assegna la maggioranza più ampia che la storia repubblicana ricordi e per di più a un partito che si colloca sul fronte progressista. C’è, sicuramente, lo sfaldarsi delle alternative al Pd di Renzi. C’è il buon carisma del leader, e la sua buona stella che sa comunque di futuro, dopo anni di cieli cupi e di sguardi volti per forza di cose all’indietro. C’è – e non è mai marginale – il conformismo italiano che ad ogni livello, e da sempre, agisce ed opera, e impressiona se visto all’opera in questi giorni su giornali e social network: che il vincitore va sempre soccorso, almeno fino a quando vince. C’è l’astensione che per la prima volta nella nostra storia è la prima forza in assoluto, e che batte ogni record, e ci lascia col dubbio se siamo sulla via della “democrazia matura” o su quella dell’impolitica immaturità in via di calcificazione. Ma non c’è solo questo, anzi. Nella vittoria del Pd che cambia le geometrie italiane e quelle europee, che assegna a Roma il ruolo di “donna di province” anche a livello politico continentale, ci sono altri elementi di una storia lunga che giunge, forse, a maturazione dopo decenni. Proviamo a vedere quali.
È finito il Berlusconismo politico. O, per essere più esatti, ha finito di finire. Un’epoca vera, una fase di storia italiana con le sue compattezze e continuità strutturali: un decennio pieno nei gangli del potere; vent’anni nella prima fila della politica, di più, a dare le carte di ogni posizionamento politico; qualche decennio nel cuore della produzione di immaginari di massa. Quella storia imprenditoriale, politica, umana, col voto di ieri ha valicato la soglia declino irreversibile. I fotogrammi di Iva Zanicchi che lascia stizzita il parlamento europeo per la mancata rielezione, e degli antiberlusconiani professionali che si arrampicano sugli specchi spiegandoci che il loro «core business» sopravvive sono i fotogrammi di un disfacimento. Come naturale, in democrazia, il disfacimento di ciò che è stata forza vera è un processo, lungo, lento, che conta ancora milioni di voti, che ancora gioca qualche fiche sulla bilancia degli equilibri politici. Ma insomma, il dopo-Berlusconi inizia adesso, e la debolezza di tutti i tentativi di diaspora passati e presenti – Fini, Alfano, Casini, ecc. – ci dice che il futuro italiano è una terra straniera, per tutti. Naturalmente, chi non ha più votato per Forza Italia, continua ad esistere, così come chi non l’ha mai votata per ragioni anagrafiche, eppure in quel magma di interessi rappresentati e di antropotipi espressi si ritroverebbe. Dove vanno? Dove sono andati, o andranno, se vanno o andranno a votare?
Non basta il Movimento 5 Stelle ad assorbire quel pezzo di paese, quell’area dalla lunga storia che in Berlusconi aveva cercato sfogo a istinti politici senza mediazioni, voglia di “tabula rasa” nei confronti di un establishment inadeguato, vittimismo e rivendicazione nei confronti dei poteri delle élite più tradizionali. Perché – sia chiaro – non è finito l’urlo profondo e sordo del grillismo; non è finito anche se la botta di questi giorni è di quelle che lasciano il segno. Restano quasi 6 milioni di voti: tantissimi, avremmo detto un paio di anni fa. Pochi, se comparati a quelli dello scorso febbraio e soprattutto alle promesse (sbagliate) di testa a testa o addirittura di un sorpasso. Pochi, ancora, se si considera quale emorragia si sia generata in una destra che, appena in passato, un po’ di sangue a Grillo e ai suoi lo aveva mal volentieri donato. La botta – dicevamo – è di quelle dure, e bisognerà capire se la struttura liquida nel corpo centrale e granitica nel ristrettissimo vertice del Movimento sarà in grado di reggere. Quanto sarà capace di trasformare la frustrazione di centinaia di migliaia di attivisti, militanti, simpatizzanti, oggi più che mai confusi, in una nuova spinta. Il tema è vitale per Grillo, ma è di una certa rilevanza per tutti noi. Piaccia o meno, con toni esacerbati ma sempre attenti a non sfondare il muro che separa le parole dai fatti, le opinioni dai crimini, il leader genovese e Gianroberto Casaleggio hanno rappresentato, in anni di progressivo disfacimento delle forme tradizionali di rappresentanza, una camera di decompressione della rabbia, e di sua combustione (per quanto confusa, approssimativa, complottista) verso un orizzonte comunque di proposta. Hanno sicuramente svolto un ruolo di mediazione tra un corpo grosso, non rappresentato, arrabbiato, frustrato, vittimista, e le istituzioni: un loro disfacimento avrebbe esiti imprevedibili, che preferirei non dover verificare sul campo, mentre i caroselli da tifosi di certi vecchi (e nuovi) renziani dovrebbero lasciare il posto a quella cosa noiosa che si chiama lavoro. Le ragioni strutturali dell’esistenza di Grillo, e di un movimento di alternativa radicale, pura protesta e opinione estrema, esistono, continuano ad esistere: e fino a quando esisteranno esisterà lo spazio che in pochi anni Grillo ha occupato con grande abilità.
Del resto, il permanere delle forze politica in costanza delle ragioni strutturali che le giustificano, è esemplificata in maniera mirabile dalla Lega Nord, oggi guidata – per la prima volta nella sua storia – da un milanese, Matteo Salvini. Il partito fondato da Bossi ha attraversato ogni sorta di contraddizione: da Roma Ladrona agli scandali per corruzione; dalle accuse al “mafioso di Arcore”, alle alleanze granitiche con lo stesso, ai rapporti tra dirigenti del partito e criminalità organizzata; dalla lotta agli sprechi al nepotismo che portava in poltrona amici, amanti e parenti. Finisco l’elenco prima che il ripasso generi noia, e torno a ieri: la Lega c’è. Si ritagli lo spazio del partito a forte radicamento territoriale, continua la lenta penetrazione al centro e in avamposti del sud, come Lampedusa, in cui l’Africa dei disperati è vicina e l’Europa dei burocrati lontana, e insomma continua a crescere lungo le direttrici sociali ed economiche che ne costituiscono la ragione. È ormai superfluo dire che esiste in ragione di tutte le patologie che denuncia. Esiste, e continua a testimoniare la lungimirante intuizione di Bossi, la sordità di un intero ceto politico alle ragioni di malcontento fiscale ed economico, l’assenza di contravveleni diffusi, condivisi e credibili quando, per continuare ad esistere, tocca corde di esplicito razzismo, evidentemente incompatibili con ogni forma di civiltà occidentale data per acquisita. Strutturale non è, invece, il permanere di un’area partitica della sinistra-sinistra, che questa volta si è data il nome del leader greco Tsipras. Intendiamoci: il permanere, l’ampliarsi, il rinnovarsi radicale delle tensioni tra capitale e lavoro – come si diceva due Repubbliche fa – non rende superflua, anzi, l’esistenza di organizzazioni che stanno dove sta la sinistra. E tuttavia, si fatica a immaginare che da questa aggregazione estemporanea e disorganizzata di sensibilità antiche e nuove possa germogliare qualcosa di stabile. Tanto che le stesse istanze di critica europea, a questa Europa, come si dice, si sfogano altrove, e con ben altri risultati rispetto al ceto intellectual-chic (da salotto, da social network) che varca per un soffio la soglia del 4%.
Alla fine, in mezzo a tanti mezzi vuoti, sta chi davvero ha fatto il pieno. Matteo Renzi è il perno di un partito-tutto, che fa delle debolezze degli altri la propria forza; della fine delle epoche altrui la premessa per la propria nuova era. I più superficiali, presi dal furore della propaganda, lo hanno per anni bollato come democristiano, perché boy scout, di estrazione cattolica, e con amici nell’area. Sbagliavano. Se un punto di contatto vero tra questo presente e quel passato esiste, e io penso di sì, sta piuttosto nella vocazione maggioritaria che – meriti endogeni, meriti delle forze della storia, soprattutto – il Pd può finalmente provare ad esercitare. La vocazione maggioritaria, come tutti ricordano, non è espressione renziana, ma veltroniana: tanti difetti, ma democristiano proprio no. Solo che alla fine, per tante ragioni e per le sue capacità di timing, coraggio e sfacciataggine, Renzi si trova in mano, appunto, un partito-tutto: un partito come era la Dc, per molti versi. In cui stavano, insieme, catto-comunisti, socialisti di base, conservatori liberali, conservatori di destra, protestanti, cattolici, bestemmiatori incalliti, e papisti oltranzisti. Certo, di fronte c’era la minaccia comunista, il terrore di una nuova avventura nel baratro, che oggi non c’è. Ancora, alle spalle c’erano corpi intermedi, sindacati, una grande agenzia come la Chiesa Cattolica. E anche questi non ci sono, o non ci sono più, o non c’entrano con la costituency di questa nuova forza egemone. Infine, c’erano culture politiche e rappresentanze di interessi solide, in epoca di strutture pesanti: e anche queste ultime non ci sono, non ancora, nell’orizzonte renziano, e sarebbe il caso anzi di attrezzarsi davvero per evitare di finire stritolati nel meccanismo che prima ti coccola, ti esalta, e poi ti fa schiantare. Però c’è, questo sì, il destino di un partito interclassita, che deve svolgere una funzione progressiva e insieme di tenuta, che deve parlare in Europa a nome di tutti i tanti che lo votano: dal centro di Milano alle fabbriche. E deve parlare anche a nome di chi non lo vota, di chi lo disprezza, perché questo fanno le forze di governo. Un partito-tutto, appunto, per cui Renzi e i suoi hanno bisogno di spalle larghe, e in fretta: perché l’egemonia non è un pranzo di gala, e nemmeno un’ondata di troll sui social network. Uno che ha preso il potere con una manovra di palazzo, come un comunista, e ha allargato il consenso con la pulsione anti-ideologica di un buon democristiano, sicuramente lo sa.