Alberto Piccinini, GQ 6/2014, 30 maggio 2014
IL GRANDE ASSENTE
Parla poco. Parla romano. Parla coi piedi. Sorride spesso, fa battute. Si capisce che il personaggio “Er Capitano” se l’è costruito per tenere a bada un po’ di timidezza antica e l’attenzione del mondo intero, perché, anche a 37 anni, Francesco Totti è sempre sotto i riflettori: lo si nota se alla festa ci va; lo si nota di più se non ci va. E la sua assenza alla festa del Mondiale 2014 si farà notare. Eccome. «Per me sarebbe l’ultimo, e giocarlo in Brasile e a 37 anni, poi, sarebbe una bella soddisfazione», spera ancora lui, ma Prandelli è stato chiaro: solo un’emergenza potrebbe convincerlo a convocarlo. Gli ex compagni di Nazionale dovrà guardarli in tv, compreso il controverso Balotelli: «Credo che bisognerebbe lasciarlo tranquillo». Dei Mondiali gli resteranno i ricordi: «Il più bello è senza dubbio la finale di Berlino nel 2006, il sogno di ogni calciatore. Avevo lavorato tanto per superare l’infortunio e riuscire ad arrivare al Mondiale. Quella finale è stata la chiusura di un cerchio».
Non si chiude invece il cerchio con la Roma: 560 partite con la stessa maglia. «Sono cresciuto giocando a pallone, morirò giocando a pallone», dirà poi. Perché Totti preferisce la virtù della lealtà (a società e tifosi) al demone dell’ambizione. Le leggi non scritte, le furbizie del calcio le conosce tutte. Il suo limite, lo ammette, è l’istinto, la troppa passione. Se sono limiti. O la vita, semplicemente.
Un po’ ti diverti a fare il divo senza pallone.
«Se la cosa dura poco, sì. Dopo tre o quattro ore è stancante. Con gli spot è peggio, lì me rompo proprio».
Ora fai volentieri pure le interviste del dopopartita: ti scappa il sorriso, la battuta.
«Dici? Dipende da chi fa l’intervista. Già sei stanco, ma certi fanno domande... inusuali, che non t’aspetti proprio».
Ce n’è una che mai nessuno? Qualcosa che i tifosi dovrebbero sapere dopo una partita? Se li commentassi tu gli incontri...
«A oggi non c’è pericolo che diventi giornalista. Ma no, mi chiedono sempre di risultato, partita, di come ha giocato la squadra. Mai del perché hai calciato così, o di come hai fatto quel gesto tecnico».
Immagina, la squadra ha perso, arriva un calciatore e dice: «Scusate, ma stamattina mi sono svegliato male».
«E chi se ne frega! Anzi, mi metto dalla parte della gente. Se io rispondessi che me so’ sveijato male che direbbero? Con tutto quello che guadagni! Ci fossi io al posto suo! Perché la gente ragiona così, non pensa che pure chi ha soldi, o fa una bella vita, possa avere problemi. I problemi ce l’abbiamo tutti. C’è il giorno che ti svegli meglio e quello che ti svegli peggio. O hai litigato con tua moglie, coi figli, con tua madre. Succede».
Nessuno lo saprà mai.
«Se ti metti dalla parte dei tifosi, pensi: “È impossibile che Totti c’ha problemi”».
Ma riesci veramente a parlarci con loro?
«Quando sto a Trigona non tanto, perché mi alleno e dopo vado a casa subito. Qualche confronto c’è a inizio anno, durante il ritiro in montagna. Sempre di Roma si parla, ma ogni tanto fa piacere avere un dialogo bello con i tifosi, perché sono quelli che mandano avanti la baracca».
Quando sei in campo lo senti il pubblico? Un colpo di tacco dei tuoi è sempre funzionale o è fatto anche per lo spettacolo?
«Prima di tutto è per la squadra. Poi è normale che, se la giocata riesce, sono contento: la posso rifare un’altra volta, e se sbaglio non succede niente. Certo, giochi anche per far divertire la gente. Ma la gente si diverte quando vinci».
Ti ricordi il momento in cui hai davvero cominciato a sentire il pubblico?
«Più ci stai dentro e passano gli anni, più lo senti. Ma senti anche la responsabilità E capisci pure il modo in cui pensano loro: farsi sentire, impaurire l’avversario».
Ti hanno accusato di cadere troppo spesso, di prendertela con l’arbitro. Anche questo lo fai per il pubblico?
«Anche, ma in quel momento non ci penso. Da fuori è facile, sono tutti allenatori: doveva fare così, doveva fare cosà. In campo, se corri e uno ti tocca, è normale che cadi. Se io mi lamento o cado prima di ricevere un calcione è solo per difendermi, perché i calciatori del mio genere non sempre vengono tutelati. Però da fuori passi per il cascatore».
Sai benissimo che in quel momento sei inquadrato da cinque telecamere.
«Certo. Come la gomitata: se gliel’hai data poi si vede, per forza. Ma sono cose istintive, capitano al momento».
Hai mai esagerato?
«A volte rivedo le immagini della partita e mi metto a discutere tra me e me, sembro un matto. Provo a darmi delle spiegazioni. Una parte di me dice: “Era meglio se stavi in piedi, hai esagerato”. L’altra risponde: “L’istinto ha voluto così”».
Sei sempre stato un calciatore emotivo, passionale. È un limite o è una forza?
«Una forza. Gioco per passione, per divertirmi, perché mi piace. Col pallone ci sono cresciuto e ci morirò. È sempre stato il mio punto debole».
Pensa ai tennisti. Da una parte Borg e il tuo amico Federer, i freddi. Dall’altra parte i pazzi alla McEnroe.
«Io scelgo Federer. Ma con i calciatori è più complicato: sono tutti diversi. È bello perché c’è chi è più matto, chi corre di più, chi di meno, chi è più bravo tecnicamente. Fossimo uguali non sarebbe neanche calcio»,
Ma tu sei contento di essere come sei?
«Sono contento. E spero sempre che il futuro mi possa riservare qualcos’altro».
La disperazione vera, durante una partita, esiste? L’hai mai provata?
«In alcune partite sì. Ma lì entra in gioco il carattere: devi stare calmo, pensare a quello che non devi fare, non lasciarti trascinare dall’istinto. Essere in campo non è lo stesso che tifare da fuori, devi tenere sempre il freno a mano tirato».
L’esperienza aiuta?
«L’esperienza è tutto. Quello che facevi da giovane a un certo punto non lo fai più».
Riesci a dare consigli a chi è più giovane di te?
«Sì, ma solamente quelli banali. Poi, ognuno è libero di fare quel che vuole».
Hai già pensato a come sarà la tua ultima partita?
«Sinceramente no. So che sarà bello, emozionante e vissuto davanti ai tifosi della Roma. Ma sarà anche terrificante. Vorrà dire che sono di fronte alla fine del sogno realizzato, in cui vivo da oltre vent’anni. Non oso neanche immaginare la reazione della gente».
«Smetto»: ecco, è così difficile dirselo?
«So che il momento si avvicina, però non c’è mai una fine. E sarò io il primo a gettare la spugna».
Sicuro?
«Sì, non voglio scendere in campo a fare figuracce».
Insomma, vorresti chiudere in bellezza...
«In bellezza fino a un certo punto. Però chiudere».
Hai assistito a qualche addio al calcio di tuoi colleghi?
«Sì, tanti: Bruno Conti, Giuseppe Giannini... Vincent Candela, mio grande amico, entrò in campo su una biga. Una vera americanata! Tutti momenti bellissimi, sempre con lo stadio pieno. Lì capisci cos’è l’amore per un calciatore».
A proposito di amore. Tu non diresti mai a un tifoso “innamorato” di te: “Guarda che è soltanto pallone!”
«Sì, gliel’ho detto. Però loro guardano solo in una direzione. A parte gli scherzi, non mi permetterei mai. Fa piacere vedere le persone innamorate di te, che sia il giocatore o la persona reale. Vuol dire che qualcosa di bello l’hai fatto».
Quali sono le cose più importanti del pallone, per la tua vita?
«La famiglia viene prima di tutto. Quando stai bene lì, riesci a fare tutto il resto».
Il pallone a questi livelli ti ha tolto qualcosa?
«I tifosi a Roma sono passionali. Sono nato qui, vivo qui, la vita privata è difficile gestirla. L’ho detto tante volte: sono vent’anni che non vado a via del Corso a fare una passeggiata».
Neanche in motorino, con il casco in testa?
«Te riconoscono lo stesso. Guarda, so a cosa vado incontro, perciò evito».
Quindi Roma la frequenti poco. Si può dire? Torni mai nel tuo vecchio quartiere?
«È vero, non la conosco benissimo Roma. E nel mio vecchio quartiere ci passo solo in macchina, ma non mi fermo mai. Non c’è più nessuno di quelli che vivevano quand’ero bambino, e poi succederebbe l’iradiddio».
Daniele De Rossi per un po’ è andato a vivere a Campo de’ Fiori, in pieno centro antico.
«Oggi se io vivessi in centro, dovrei andare in giro con l’elicottero. Però, se non avessi fatto il calciatore, probabilmente vivrei ancora nel quartiere in cui sono cresciuto».