Tim Small, GQ 6/2014, 30 maggio 2014
FACCIA DA DURO
Andrea Pirlo è un tipo tranquillo. Ha appena finito di farsi fotografare ed è seduto su un divano, rilassato, i capelli lunghi gli scendono un po’ su un lato del viso e la folta barba ne maschera le espressioni. Quando gli chiedo se gli piacciano gli shooting fotografici, ci mette meno di mezzo secondo a rispondere con un secchissimo, decisissimo: «No». Senza nemmeno l’accenno di un mezzo sorriso.
Andrea Pirlo è serio: non ama farsi fotografare. E dalla sua prima risposta monosillabica già capisco che tipo di intervista sarà, perché dire che Andrea Pirlo è un uomo di poche parole è un’ovvietà nota a chiunque ne sappia anche un minimo di calcio. Pirlo non ama farsi fotografare, non ama farsi intervistare, non ama parlare. Pirlo è tanto fenomenale in campo quanto lapidario fuori. Pirlo è misterioso. «Non mi piace apparire. Preferisco fare altro», confida con la voce profonda, un poco rotta, quasi cavernosa. Questo modo di essere è lo stesso modo che ha Andrea Pirlo di vivere, sempre, ed è anche il suo modo di essere sul campo da calcio. «Penso sia la mia personalità. In campo faccio quello che devo fare al meglio che posso. Finito lì. Faccio le mie cose. E basta». Ma Andrea Pirlo è anche un leader, indiscusso. «È vero. Ma è anche il ruolo in cui gioco: sei leader per forza perché sei al centro della squadra, devi dare i tempi a tutti. Mi piace farlo. Mi riesce bene». Ma non parlategli di responsabilità. «Non mi piace urlare o gesticolare per farmi vedere. È giocando come gioco che divento un punto di riferimento. Non amo dare ordini. Io voglio mostrare come si sta in campo, voglio dare l’esempio ma con i movimenti, con quello che faccio, non con quello che dico».
Però gli altri calciatori spesso parlano di lui come di un segreto simpaticone. «Poi, nello spogliatoio, parlo, e scherzo. È vero. C’è un lato di me che non si vede durante le partite. Ma quelle cose rimangono nello spogliatoio, sono cose private». D’altronde l’ha detto anche Marcello Lippi quand’era ct della Nazionale (nella quale Andrea Pirlo ha giocato 108 volte, secondo giocatore per presenze dell’attuale gruppo, secondo alle 139 del capitano Buffon): «Pirlo è un leader silenzioso: parla con i piedi».
Andrea Pirlo è un leader, ed è un fenomeno. Un fenomeno che non appare, il calciatore preferito dagli intenditori di calcio. Un giocatore che, senza destare scalpore, senza far rumore, è stato decisivo in ogni squadra in cui ha giocato. I grandi successi della Juventus – al terzo scudetto consecutivo – sono in gran parte merito suo e la sua acquisizione a parametro zero, dal Milan, è stata definita da Buffon “l’acquisto del secolo”. È sempre stato Pirlo a rendere la sua nuova squadra la più forte d’Italia con un grandissimo distacco sulle altre, dopo aver guidato la vecchia a svariati trionfi italiani ed europei. Il tutto, mentre portava la nostra Nazionale alla Coppa del Mondo del 2006 e in finale agli Europei del 2012.
Ha vinto più premi e riconoscimenti di qualsiasi altro giocatore italiano della sua generazione. Il grande giornalista sportivo Michael Cox, in un pezzo per Espn intitolato Andrea Pirlo, a giant of his generation, termina il discorso ponendosi una domanda: «Pirlo è il più forte calciatore della sua generazione?». Poi si dà la risposta: «Non proprio, ma è il più importante». La tesi di Cox è che proprio il passaggio dalla posizione di trequartista a quella di regista davanti alla difesa, nel Brescia di Mazzone prima (pensateci: quel Brescia schierava sia Baggio sia Pirlo), nel Milan di Ancelotti poi, e il successivo trionfo planetario in quel ruolo, ha ispirato il ritorno al regista con i piedi buoni anche nel Barcellona di Guardiola. Lo stesso Barcellona che ha quindi finito per dominare il calcio mondiale dell’ultimo decennio, grazie a un centrocampo tecnico e ricco di passaggi “di fino”.
La connessione speciale tra i due è che Guardiola, negli ultimi anni della sua carriera di atleta, ha giocato proprio al Brescia con Mazzone, rimpiazzando Pirlo passato al Milan. Come dire: ci sono poche leggende viventi nel calcio italiano e una indubbiamente è Pirlo. Quando gli chiedo cosa pensa quando legge di tutti questi giovani fenomeni che dicono di ispirarsi direttamente a lui, di essere cresciuti nel suo mito, guardandolo e studiandolo, Pirlo mi mostra, per un secondo, il lato più scherzoso della sua personalità. «Penso che sono diventato vecchio». Quindi accenna un sorriso. «Però mi fa piacere perché quando ero più giovane io, guardavo Baggio, Platini, Mancini. Cioè i grandi numeri 10. È bello pensare di essere d’ispirazione per una nuova generazione di calciatori».
Riguardo al ruolo specifico, allo stare in campo, alla piccola-grande rivoluzione che quel sistema di gioco ha apportato al calcio europeo, Pirlo mostra umiltà: «È molto semplice. Ho portato quello che facevo dietro le punte al ruolo di regista. In quegli anni spesso usavano, lì in mezzo, gente che distruggeva il gioco, che recuperava palloni; io invece ho cambiato questo modo di essere centrocampista davanti alla difesa, l’ho interpretato più nell’impostazione che nella rottura». È stato un cambiamento fondamentale, accenno. «Questo sta a te dirlo», mi gela il capitano.
Bene. Ma fuori dal campo, com’è? «Non faccio niente di particolare. Vado in giro, vado al ristorante, vado al cinema». Non so perché ho il sospetto che Andrea Pirlo possa essere, segretamente, uno chef abilissimo: sarà magari quel silenzio, mischiato a tanta raffinatezza in campo. «No. Zero. Non sono capace. Mai cucinato niente in vita mia». Però mangiar bene gli piace? «Sì». E il vino? «Anche».
Insomma, Andrea Pirlo è uno di poche parole, quindi è forse un mio errore cercare di capire cosa gli passa per la testa. Cosa pensa. Come gioca a pallone, nel senso tecnico del termine? Come svolge quel compito che per uno come Andrea Pirlo è assieme vocazione, divertimento e professione? Di questo, francamente, si sa davvero poco. Pensateci bene: quante volte avete sentito un calciatore parlare di cosa si prova su un campo da calcio? Dei suoi ragionamenti mentre fa quello che fa? È un lavoro, giocare a calcio, un lavoro come un altro.
Il mondo del giornalismo è pieno di articoli che provano a portarci nella mente di un chirurgo, di un politico, di un economista, ma anche di un operaio o di un carabiniere. E il calcio è fatto di calciatori, di atleti professionisti, lavoratori che svolgono dei compiti che tutto il mondo segue, analizza, osserva. Eppure la domanda: «Ma tu, quando giochi, a cosa pensi?» io non l’ho mai sentita.
Né ho mai sentito un calciatore che ne parla. «Non pensi a niente», dice Andrea Pirlo, «neanch’io so come spiegartelo. Diventa una cosa naturale, automatica. Pensi a fare il tuo lavoro, a cercare di fare bene le cose che sai fare. Tieni in mente quello che ti ha detto l’allenatore, ma non è che ci pensi costantemente. Sei nel momento». E un po’ come una forma di meditazione? «No, non direi. Non so spiegarlo. Diventa automatico. Naturale». Rimarrà forse un mistero. E magari è giusto così. D’altronde, Andrea Pirlo è un tipo misterioso e parte della sua aura di mistero se l’è coltivata da solo semplicemente coprendosi il volto con una barba castana che gli sta a pennello. «Ero in Cina per la finale di Supercoppa italiana, e da qualche giorno non mi facevo la barba. Mi stava bene, ho deciso di tenerla. Poi, quando mi hanno visto, erano tutti contenti». Nessuna lamentela? «No. Anzi».
Anche in questo caso, persino parlando della decisione di farsi crescere la barba, Andrea Pirlo si tiene nel mistero. Gli stava bene e l’ha tenuta. Tutto qui. Anche se oggi la barba va di gran moda. «Sì, certo, ma non l’ho fatto per seguire la moda, né tantomeno per lanciarne una nuova. Anche se la moda la seguo, mi interessa avere uno stile, vestirmi bene. Ho un mio gusto, e mi vesto da solo. Non ho una stylist o gente che mi aiuta».
Dica la verità, sta coltivando un’aria da duro? «Duro non direi. Ma sta a voi dirlo. Io mi sento forte, non misterioso. Non vado a parlare in giro, non faccio grandi scene. L’importante è che gli altri siano contenti. Mi faccio i fatti miei. È anche per quello che non ho Twitter, non uso Facebook. Non mi piace, non mi è mai piaciuto. Non voglio passare tutto il giorno a scrivere al mondo. Se i miei amici vogliono contattarmi, basta che mi chiamino. Perché dovrei star lì a fare quelle cose? Sono altre le robe veramente importanti». Quindi: Andrea Pirlo è un po’ un duro... «Un po’», ammette con un sorriso.
Prima di congedarmi, confido a Pirlo tutta la stima che nutro per lui. Tenere in vita e, anzi, alimentare un certo ideale di calciatore – uno che parla poco, che appare poco fuori dal campo, un professionista serio che prende il calcio come un lavoro che va vissuto seriamente, uno che si impegna e che comanda usando l’esempio e la stima naturale che i compagni hanno per lui, sia in maglia bianconera sia azzurra, uno che non ha Twitter ma nemmeno Facebook – non è cosa da poco, in questo momento storico. Andrea Pirlo gioca bene e parla poco. Eppure, quando gli chiedo se l’Italia può vincere il Mondiale in Brasile, ci mette meno di un secondo a dirmi di sì, Andrea Pirlo parla poco, ma dice molto.