Tim Small, GQ 6/2014, 30 maggio 2014
L’ALTRO MARIO
[Mario Balotelli]
Negli ultimi sette anni, sette anni in cui è passato dal debutto in Serie A a 17 anni ad averne quasi 24 (ricordiamolo, non dimentichiamo esattamente quant’è giovane), Mario Balotelli è stato un personaggio. È stato “anche” un calciatore, certo, e che calciatore: 7 gol in 15 partite nella prima stagione all’Inter con Roberto Mancini, da diciassettenne, e subito il primo scudetto; 10 reti in 31 presenze nel corso della seconda stagione, condita dal secondo titolo consecutivo, poi 11 gol nella terza, quella del “Triplete” del 2009-2010, in cui l’Inter di Mourinho conquistò Champions League, Coppa Italia e campionato.
A 19 anni, insomma, Balotelli aveva già vinto più di quanto riesca a fare la grande maggioranza dei calciatori in una carriera ventennale. Poi: due anni al Manchester City (bottino: una FA Cup, una Premier League) e il ritorno al Milan – in difficoltà – da lui portato l’anno scorso al terzo posto con 12 gol in 13 partite. Con la maglia azzurra, poi: 12 reti in 29 presenze. Soprattutto, quella semifinale contro la Germania all’Europeo.
Tornando a noi: Mario, in questi sette anni di fama, è stato più di un calciatore, però. È stato il potenziale simbolo di una nuova Italia, di una nuova Europa multietnica. Per alcuni un idolo, per altri una disgrazia, una vergogna, un matto. È stato amato, venerato tanto quanto odiato, lusingato, considerato un campione del calcio, uno dotato di tale potenziale da poter entrare in una zona rarefattissima: si parla di lui, chissà, magari, come di un futuro Top 5 del mondo.
Allo stesso tempo, però, si parla di Mario Balotelli come di uno che non farà altro che sprecare il suo talento. Si è guadagnato celebrazioni, insinuazioni, copertine di giornali in ogni Paese, sponsorizzazioni globali, poi insulti e altri insulti. E si è scontrato spesso con un problema che attanaglia ancora la società italiana: il razzismo. Un problema di cui è stato, che lui lo volesse o meno, un punto focale.
Di Mario Balotelli si dice che è un bambinone, un immaturo, talvolta anche di peggio. Perché? Ho un’opinione forte al riguardo. Secondo me ha a che fare con il colore della pelle della gente che lavora nei media in Europa, con forme di razzismo più o meno sottili che pervadono le nostre società, con l’inabilità di non vedere in Mario un simbolo di qualcosa (di un cambiamento sociale oppure di un gruppo di persone, magari di un nuovo modo di essere europei) invece di quello che è: cioè un calciatore di talento e basta.
In altre parole: se Mario non fosse nero sarebbe semplicemente un calciatore talentuoso, ma un calciatore come tanti altri. Un po’ sbruffone? Forse. Un po’ casinista? Anche. Ma quanti protagonisti del calcio lo sono? Il doppio standard applicato nei suoi confronti rispetto a quello che viene usato con colleghi che di diverso hanno solo la pelle bianca e, forse, un po’ di talento in meno, per me è lampante. Non è forse razzismo, questo? Non lo stiamo, sia nel bene sia nel male, giudicando osservando prima di tutto il colore della sua pelle?
Poi ci sono due fenomeni più generali, la creazione dei “personaggi” nei media contemporanei e il “mito dell’atleta pazzo” che, purtroppo, rimane un modo facilone di raccontare certi personaggi dello sport che non si lasciano inquadrare negli stereotipi usuali. Pensiamo a Maradona, Best, Cantona, Tyson, o allo stesso Di Canio. Il giornalista americano Brian Phillips descrive in uno splendido articolo per Grantland, sito dedicato allo sport e alla cultura pop, due Balotelli: c’è il Mario Balotelli calciatore talentuoso con alcuni “problemi caratteriali” più o meno gravi, in opposizione a MARIO BALOTELLI!!! che è un personaggio fittizio creato dai media, il protagonista sopra le righe, estremo, assurdo, quello che fa cose come, per esempio, uscire da un casinò e regalare mille sterline a un senzatetto; oppure saltare l’allenamento per passare la giornata in una scuola media a difendere un ragazzino vittima del bullismo. Magari, dare fuoco al suo appartamento con dei fuochi d’artificio, oppure tirare freccette a giocatori della squadra Primavera da una finestra, o travestirsi da Babbo Natale per regalare soldi ai passanti nel centro di Manchester eccetera eccetera.
Il punto non è se queste cose Mario le abbia fatte davvero, sebbene lui nel corso di questa intervista me le abbia smentite quasi tutte: il punto è che, ormai, i lettori e i media vivono in un mondo in cui la vita di Balotelli è diventata un romanzo a puntate di cui aspettiamo costantemente il prossimo colpo di scena. Aggiungiamo a questa ricetta un altro elemento chiave: «Mario rappresenta l’integrazione razziale in Europa» e il potenziale esplosivo che ne consegue è immediatamente evidente.
Ma Mario Balotelli è un ragazzo, in carne e ossa, che oggi mi sta seduto davanti. E che, appena menziono la parola personaggio, si raddrizza sulla sedia. «Non mi piace, sinceramente, il personaggio che hanno creato. Non sono io. Molte cose sono inventate. Praticamente dovrei sparire nella mia vita privata e rendermi pubblico soltanto in campo. Ma è difficile, anch’io ho una vita, esco, ho una fidanzata, una famiglia, gli amici».
Ogni giorno, invece, viene detto qualcosa. «Di giusto, di sbagliato, di vero, di falso: però hanno sempre qualcosa da dire. In pratica, devo pianificare ogni mio movimento, devo organizzare ogni cosa». Immagino sia stressante, e me ne accorgo da solo. Sul set dove Mario si sta facendo fotografare ci sono 23 persone. Le ho contate. Questa è la realtà di tutti i giorni di Balotelli. Quando arriva sembra felice, sorridente, e lancia le chiavi della Ferrari, gli anelli tempestati di diamanti e il cellulare al suo super-agente Mino Raiola che, scherzando, minaccia di non ridarglieli. Sento che le 23 persone che gli girano attorno si rilassano, che l’aria si fa meno tesa. Immagino che molti di loro avessero avuto qualche forma di paura (come me) pensando, magari, di trovarsi davanti a MARIO BALOTELLI!!! Invece Mario-senza-punti-esclamativi è molto disponibile: per due ore si farà scattare una serie infinita di ritratti, mentre agenti, responsabili del suo sponsor, assistenti, fotografi, stylist, parrucchieri, truccatori e una coppia di videomaker molto giovane e hipster gli ronza intorno come uno sciame d’api attorno a un barattolo di miele.
Anch’io, devo ammetterlo, faccio parte di quello sciame. Ma quando finalmente ci sediamo a parlare, Mario è sorridente. Gli chiedo se la continua, incessante attenzione dei media nei suoi confronti sarebbe stata diversa se lui non fosse stato di colore. Voglio sentire che ne pensa lui. Il Balotelli che risponde sembra una persona che a questo ha pensato tanto, e a lungo. Senza esitazioni: «Non credo».
L’Italia è un Paese poco abituato ad avere rappresentanti famosi, di successo e di colore. «Esatto. Penso che dia fastidio il fatto che io sono diverso. Ma il mio comportamento è normale, solo che sembro un ribelle perché, appunto, sono diverso. E poi, posso fare quello che voglio. Quindi il problema non sono le cose che faccio, ma che queste cose mi siano “permesse”. Questi stupidi se la prendono con me e dicono cattiverie. Ma alla fine non faccio mai niente di estremo. Le cose che ho fatto in passato, sbagliando, avrebbe potuto farle chiunque. Non credo di aver fatto nulla fuori dagli schemi o dalla realtà. Comunque i miei errori li ho sempre pagati. Non ho mai fatto dei torti incurabili alla gente. Penso che, se fossi bianco, magari qualcuno mi manderebbe a quel paese, ma non sarebbe così com’è ora. No, assolutamente no».
C’è un fondo di razzismo in questo. «È sempre così», confida. «La gelosia, di per sé, è già una cosa molto brutta. Ma quando uno è diverso e ha di più, diventa rabbia, e quella rabbia è razzismo».
Però Mario mi dice che non vuole parlarne. «Non posso dedicare anche questa intervista agli ignoranti», mi dice. Sembra addirittura un po’ rassegnato. «Basta lasciarli parlare, gli stupidi, basta che la gente dotata di un po’ di cervello resti unita e quelli là se ne andranno. Oppure, non lo so, continueranno, però saranno sempre meno». Mi chiedo perché non ne voglia discutere, visto che ha un’opportunità unica di poter, forse, cambiare le cose. «Io sono uno che parla poco, sono anche timido. La gente che mi conosce lo sa come sono fatto, sa che sono un ragazzo buono. Io lo so che si sta combattendo per questa cosa, ma so anche che quando si cerca di affrontare il discorso nelle interviste, sì, magari poi se ne parla per due o tre giorni, ma dopo torna tutto come prima. Perché queste sono cose che non si cambiano con poco».
Continua: «Se, un giorno, ci sarà modo di fare qualcosa di veramente grande, qualcosa che potrebbe davvero cambiare la situazione, allora sarò il primo a rendermi disponibile. Ma così, ogni volta dire le stesse cose e dedicare spazio a questa gente ignorante, be’, mi sono stufato. Questo non toglie che, quando ci sarà da fare qualcosa di forte per aiutare anche le persone meno fortunate di me, allora ci sarò. Ci sono tanti ragazzi come me, che vivono gli stessi problemi che ho avuto io quand’ero più giovane, che subiscono il razzismo, ma non sono fortunati come me: sono loro, soprattutto, che meritano di essere trattati come gli altri. Ma finché sono parole, così, non so quanto possano aiutare».
Non mi aspettavo un Mario Balotelli così aperto sull’argomento, francamente. A questo punto entra anche Mino Raiola, il procuratore: abbandona la facciata scherzosa e interviene, chiede al suo assistito se non pensa che le sue parole possano invece aiutare le minoranze in Italia. Ma lui non si schioda da quella sua posizione un po’ rassegnata. «La mia parola non può aiutare davvero nessuno. Magari darebbe una mano alla gente a farsi forza, ma non può realmente aiutarla. Voglio fare qualcosa, questo è chiaro: il punto vero del discorso non è se fare qualcosa o no, ma come farla. Non posso svegliarmi alla mattina e farmi venire in mente un’idea, così, e realizzarla. Sono cose che vanno pensate, e io ci penso». Mi chiedo se la soluzione, alla fine, non sia il calcio. Mario ribadisce che è quello, alla fine, il suo lavoro.
Ma se l’Italia vincesse il Mondiale con un suo gol non potrebbe, come la Nazionale francese nel ’98, quella della globalizzazione e delle banlieue, cambiare le cose? Sorride. «È brutto dire che dobbiamo vincere il Mondiale di calcio per migliorare la società. Non si dovrebbe arrivare a questo». Ha ragione, era una provocazione. Ma sono sicuro che Mario Balotelli, il ragazzo in carne e ossa, il ragazzo sorridente e sensibile che ho davanti a me, ci proverà, con tutto se stesso. Sia a cambiare le cose sia a vincere il campionato del mondo.