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 2014  maggio 30 Venerdì calendario

A PRANZO CON LUDOVICO EINAUDI


De André? «Confesso che mi annoiava». Guccini? «Be’, tutte quelle rime...». Paoli? «Non saprei che dire». È nato nel 1955, Ludovico Einaudi, e nella sua educazione sentimentale, accanto al Conservatorio e a Luciano Berio, ci sono dosi massicce di Beatles e Stones. Ma non il pop italiano: «Un po’ di Battisti, Equipe 84, Celentano, ma senza le grandi emozioni che mi davano Bob Dylan e Jimi Hendrix. Nelle canzoni di molte parole vedevo un’altra malinconica prova della marginalità italiana». Insomma, c’è la contaminazione, «l’Africa, Springsteen, i Radiohead, il folk italiano», ma non il festival di Sanremo, che «già allora non mi interessava e oggi mi piace ancora meno. Nell’ultima edizione hanno riproposto persino le gemelle Kessler, cercando di mitizzarle».
Prima un grande presidente, poi un grande editore, ora un grande musicista: l’eccellenza è un liquore del liquido seminale? Ludovico Einaudi ride, ma non con la bocca, «ride con gli occhi un po’ freddi» come scrisse Natalia Ginzburg del padre Giulio, o forse «ride con gli occhi di un freddo limpido» come scrisse Indro Montanelli del nonno Luigi. «Di genetico ci sono la tenacia, la caparbietà», dice. «Poi non so, il carattere piemontese, la geografia, le Langhe».
Come vuole il marchio Einaudi, anche Ludovico è distaccato e gentile, guardingo e a sangue ghiaccio. La sola spavalderia esibita sono i basettoni lunghi e bianchi, che gli coprono le guance magari per compensare la pelata. «Sono nato a Torino, la mia patria musicale è l’Inghilterra, ma la mia città è Milano». A Brera si muove «come in un club»: per strada lo chiamano Ludovico e gli sorridono, non è molto alto ma la sua presenza si impone. E una giornata di chiaro e di brezza; una corrente di trasmissione del pensiero ci spinge dentro una mostra di architetti. In questo spicchio di Milano dove tutti si sentono artisti, Einaudi esercita un ascendente che amministra con sapienza naturale: «A Torino invece mi sento a disagio, mi sembra di soffocare, è piccola, chiusa e molto pettegola». Roma? «È bella ma non potrei viverci».
Al ristorante gli servono paccheri al pomodoro, calore umano e simpatia. Non è ri-conosciuto ma conosciuto, forse perché non televisivo: «Sono stato una volta da Fazio, un errore che non ripeterò. Mentre parlava con me guardava da un’altra parte: un circo. Per fortuna le mie cose vanno avanti senza bisogno di tv. Se non mi piace guardarla, perché dovrei andarci?». Non guarda neanche i tg? «No». I giornali? Il sabato prendo il Financial Times. E, raramente, il Corriere o Repubblica». I siti Internet? «Poco». Allora come si informa? «Non ho l’ossessione di essere informato a dosi massicce, penso che si produca più informazione di quanta una persona possa metabolizzare senza esporsi a ingorghi alluvionali, ingolfamenti dell’intelligenza».
Dal balcone di casa, con una Leica «programmata solo per il bianco e nero», scatta foto che somigliano alla sua musica: pulizia dell’immagine e del suono, tecnica e semplicità, bellezza estetica, il ritratto di strada: «Da ragazzo ho fatto apprendistato da Ugo Mulas. Mi è tornata la voglia, molto intensa». Negli anni di piombo frequentava il Conservatorio: «Non sono mai stato tentato dall’estremismo. Avevo però qualche amico tra gli anarchici». È sempre stato di sinistra? «Sempre». Per chi votava? «Pci, senza passione; qualche volta radicale, qualche altra verde». E adesso? «Pd, senza passione».
È credente? «No. Le religioni mi incuriosiscono ma non mi tentano». Neppure la sacralità del rito? «No». Ma non c’è una cappella nella casa della famiglia Einaudi a Dogliani? «Ha ragione, lì il rito diventa memoria». A Dogliani passava le estati? «No. Andavamo per la vendemmia». E al mare? «Sì, a Bocca di Magra, sabbia, ciottoli e qualche scoglio. Era la libertà, per me». Sono quelle le onde che ha celebrato in musica? «Ci sono anche quelle di Filicudi, dove siamo andati per molti anni. Ma non mi riconosco nel mare-cartolina». Viene dalle Langhe la malinconia della sua musica? «Nella mia musica c’è anche l’allegria, c’è la vitalità: forse è quella della nonna emiliana».
Il nonno era davvero austero? «Tutto in Piemonte è austero, anche il vino. Al di là della leggenda della mezza pera che al Quirinale offriva ai capi di Stato, ricordo che controllava i conti e usava già le luci a basso voltaggio». La nonna invece scialacquava? «No, ma era molto vivace». E lei, con i suoi tre figli è austero? «No. I tempi non lo permetterebbero più».
Crede nella discendenza ma non nella logica del cognome? «Ho avuto la fortuna di essere apprezzato in Inghilterra. In Italia, invece, ci sono voluti tempo e fatica». Una delle famiglie più importanti del Paese è dunque la meno familista? «Mio padre cominciò la carriera di editore pubblicando i libri del nonno, ma di sicuro non ha fatto il suo stesso mestiere. E io faccio un mestiere molto lontano da entrambi». Non c’erano tradizioni musicali nella famiglia paterna? «Papà non la capiva. Ricordo che gli piaceva John Cage, ma forse perché otto minuti di silenzio durante un concerto sono letteratura; a lui piaceva l’artista.
«La tradizione musicale c’era invece nella famiglia di mia madre Renata Aldovrandi. Era figlia di un direttore d’orchestra e compositore, Wando, che emigrò in Australia per non suonare l’inno fascista. Purtroppo lui e la nonna non riuscirono più a rivedersi, anche perché a quei tempi Sydney era davvero lontana. Pensi che la nave che riportava in Italia tutte le sue cose, comprese le composizioni, si inabissò».
Mi mostra il libretto di canzoni francesi che «mamma suonava in casa e che mi hanno trasmesso l’amore per il pianoforte», indica con il dito i segni sugli spartiti di «quando ancora non sapevo leggere le note». Infine le parole e le illustrazioni magiche che raccontano «un bambino alla ricerca del suo stile», linee, piani, visi, mani, piedi, forme di alberi e di fiori che diventano musica: «Sur le pont d’Avignon / L’on y danse, l’on y danse».
Annuso l’odore della carta antica e Ludovico mi comunica con gli occhi la seduzione, «il patto di complicità con mamma che è morta a 92 anni». Il francese «è la lingua che i miei parlavano quando non volevano farsi capire da me e dalle mie due sorelle».
Le canzoni sono quelle dei bimbi di Francia: «L’on y danse tout en rond». Alcune, per esempio Au claire de la lune, si possono suonare con un dito; come certi passi di Divenire, come Primavera che Ludovico suona con una mano sola, la destra, mentre la sinistra accompagna arpeggiando. La stessa semplicità delle Onde: poca musica scritta, ma molto suonata. E, come in Luce dei miei occhi, ora al dito della mamma si aggiungono gli archi, il violoncello e i violini:
«Au clair de la lune, /Mon ami Pierrot, / Prête-moi ta plume / Pour écrire un mot».
Mentre mi parla di sua madre e del piano a coda, a me pare finalmente di sapere cosa ho percepito di familiare nel famoso Les Intouchables.
Ecco, lì dentro, come rimando e sottotesto, nella musica con cui questo pianista tutto controllo e misura ha incantato il mondo, c’è, a sorvegliare il daimon Einaudi come un carabiniere sorveglia un borsaiolo, il daimon Aldovrandi, l’anima di una bella signora che si liberava nella ripetitività di «Alouette, alouette / Je te plumerai la tête / je te plumerai la tête».
Sul muro c’è un capellone che suona la chitarra: «Sono io. Ma non ho appeso io quelle foto». A che età ha perso i capelli? «Verso i trent’anni». Minimalista, non ha una casa museo né espone ricordi, gli piace chiamarsi Einaudi ma «non frequento tutti gli Einaudi, a parte mia sorella; non so quasi nulla degli altri figli, quelli che mio padre ebbe prima di noi». Sta lontano, insomma, dal familismo delle grandi famiglie italiane, «dove tutti sono litigiosi e passano la vita a farsi processi tra di loro e a sorvegliarsi strettamente», in modo che nessuno possa apparire più Einaudi dell’altro.