CH&lifestyle 29/5/2014, 29 maggio 2014
LE RAGIONI DI MORETTI
[Giannino intervista Giannino]
Nelle settimane scorse si è violentemente riaccesa la polemica sull’ingegner Moretti, il capo delle FS ora passato in Finmeccanica. Sulla sua retribuzione, e sul suo modo di dire fuori dai denti “se volete me ne vado”. Lei che è un liberista, sarà d’accordo.
E invece no. Perché bisogna distinguere il giudizio su Moretti e su quel che ha fatto in questi anni, dai problemi strutturali e irrisolti che, agli occhi di un liberista, Fs - nella sua somma di Rfi e Trenitalia - ha ancora in pancia.
E dunque?
Per certi versi c’è da chiedersi chi gliel’abbia fatto fare, all’ingegner Mauro Moretti capo delle Fs, di infilarsi a testa bassa in una polemica frontale contro i tagli alle eccessive retribuzioni dei dirigenti pubblici che ha in mente finalmente il governo Renzi. E a esporsi così all’inevitabile coro di sberleffi al suo indirizzo che ha imperversato sulla rete e da parte di diversi esponenti politici.
Ma, a costo di essere tra i pochi a dirlo, la polemica va chiarita. Primo: Moretti rispondeva a una domanda in generale e non sul suo compenso, e in più in merito ai tagli ai manager pubblici, che non sono i dirigenti pubblici. Secondo: Renzi da Bruxelles ha risposto che è sicuro di convincere Moretti, ma la polemica tra premier e Moretti s’é chiusa con un reciproco “mi fido di lui”, ed è un fatto oggettivo perché se no Renzi non lo avrebbe considerato come possibile ministro, alla nascita del suo governo.
Chiariamo in punta di fatto. La proposta di tagli di spesa avanzata da Cottarelli e su cui Renzi è deciso riguarda i dirigenti pubblici, ministeriali e periferici, visto che quelli apicali guadagnano in media più di 12 volte il reddito procapite degli italiani, rispetto a 4,9 volte in Germania e 6,4 volte in Francia. Ce ne sono ancora diversi che sfuggono alla decisione assunta sotto il governo Monti con il decreto legge 6 luglio 2012 n.95, che fissa per loro il tetto della retribuzione corrisposta al primo presidente di Corte di Cassazione, intorno ai 300mila euro lordi.
Basti pensare ai segretari generali di Camera e Senato, che sfiorano quota 500mila, e allo stesso presidente della Corte costituzionale che arriva a 545mila. È a questa fascia - dirigenti apicali e di prima fascia, che a propria volta, ripeto, in media ricevono 10 volte il reddito medio degli italiani - che si rivolge il giro di vite di Cottarelli e Renzi, per recuperare quasi 500 milioni quest’anno e altrettanti nel 2015. Ed è cosa sacrosanta.
Oltretutto, Renzi nel DEF si è convinto a spostare ancora più in basso il tetto di riferimento, i 239 mila euro di compenso al capo dello Stato.
È una proposta che insieme agli amici avevamo avanzato fin dalla campagna elettorale del 2013, e dunque brindo, in alto i calici. Sarà esaltante e durissimo vedere i capi di gabinetto e i direttori generali che guadagnano di più, scrivere i provvedimenti attuativi della nuova norma che taglierà loro gli stipendi. Ma è sacrosanto. E su questo Renzi ha ribadito che intende convincere chi avesse dubbi. Ed è ovvio che agli occhi degli italiani sia cosa popolarissima.
Diversa è la disciplina dei manager delle società controllate dalla mano pubblica. Anche per loro, ai tempi di Monti, si era previsto un tetto analogo, ma con l’eccezione fondamentale delle società emittenti strumenti finanziari quotati sui mercati regolamentati. Come Eni, Enel, appunto Fs, e diverse tra le maggiori utilities locali quotate, e a propria volta emittenti di titoli. In questo caso, lo Stato ha deciso di affidarsi a criteri di mercato. Questo spiega gli emolumenti molto più elevati di Scaroni all’Eni e, a scendere nella scala, di Conti all’Enel, fino agli 870 mila euro lordi di Moretti a Fs, o il milione di euro superato annualmente dall’ad di Cassa Depositi e Prestiti, Gorno Tempini.
Ora Renzi vuole un giro di vite anche su questa materia. Benissimo, ne vedremo i dettagli. Ma andiamo alla sostanza della polemica: per le grandi società pubbliche che “stanno” sui mercati finanziari, la logica di avere un tetto più elevato ai compensi è giusta e fisiologica. Perché è il mercato a giudicare. Perché non sono dirigenti pubblici, di fatto inamovibili, ma veri e propri manager che scadono e possono esser rinnovati come no.
In questo, Moretti ha ragione, non torto, se si parla dei manager delle “grandi”. Il problema è un altro. Bisogna evitare che accada che lo Stato acconsenta al ripetersi di casi più volte avvenuti, di manager pubblici che avevano gestito male e malissimo, e che venivano comunque locupletati. Come avvenne al predecessore di Moretti, che lasciava un’azienda con 2,1 miliardi col segno meno in bilancio, e che pure uscì con oltre 8 milioni di buonuscita.
Moretti ha portato il conto economico al segno più per mezzo miliardo, con un margine di utile che in termini percentuali è doppio di Deutsche Bahn e Sncf, i due omologhi giganti ferroviari tedesco e francese. Finché lo Stato avrà grandi aziende che devono essere sottoposte al giudizio del mercato e non della fedeltà politica a chi comanda, e non capirà che molte di loro sarebbe meglio comunque cederle, è un bene che quelle poche grandi aziende abbiano manager con retribuzioni pari a quelle che per utile e fatturato valgono sul mercato. Perché punirli e sostituirli di fronte a cattiva gestione fa parte del contratto, a differenza che per i dirigenti pubblici.
Però l’attivo di gestione vantato da Moretti dimentica i miliardi di euro di trasferimenti annuali pubblici. E qui veniamo infatti al problema che resta per il liberista. Certo, Moretti si arrabbia molto quando alcuni patiti della concorrenza - che mi stanno simpatici assai - come il professor Ugo Arrigo e l’Istituto Bruno Leoni di cui anch’io sono senior fellow, cioè una sorta di “vecchio zio”, fanno conti comparati dei trasferimenti pubblici ventennali a Fs doppi e tripli rispetto a quelli dello Stato tedesco e francese agli omologhi gruppi ferroviari, mentre Moretti ribatte che il sussidio per passeggero/ km nei servizi universali non aperti alla concorrenza - come l’Alta Velocità - è però largamente inferiore in Italia. Ma questo fa parte della natura sanguigna di Moretti. È arrivato a far dire che meditava di sporgere querela, contro lo studio di Arrigo pubblicato per il Bruno Leoni. Ma poi non lo farà, o almeno questo è ciò che mi auguro. Anche qui, distinguiamo.
Che cosa?
Moretti è un manager cresciuto per decenni nelle Ferrovie, e ha saputo modificarne in profondità la struttura organizzativa e gestionale, che aveva ancora ereditato frazionata in compartimenti territoriali - dei veri e propri “potentati” personali e politici e sindacali - in cui ognuno gestiva gare e forniture, con tanta materia per le Procure, come negli anni si è visto.
L’opera di razionalizzazione e ottimizzazione, compreso un energico sfoltimento dei ranghi, è stata immane.
Disconoscere questo, e rimpiangere i manager Fs del passato, amici dei partiti e dei tangentari, è cosa dell’altro mondo. È molto diverso invece pensare al futuro.
Un futuro in cui?
Moretti ha parlato con Renzi non solo della cessione di Grandi Stazioni e Cento Stazioni, previste per quest’anno. Moretti vuol quotare Fs. E allora su questo il liberista incallito e preoccupato inizia subito a preoccuparsi, e a preparare gli argomenti da spendere. Va evitato il bis della scelta compiuta da Letta su Poste, prendendo integralmente per buona l’idea di Sarmi di quotarla così com’è, mentre andavano separate le attività finanziarie - il più delle sue revenue e redditività - da quelle postali e da tutto il resto che non è core business.
Separare le attività significa far emergere i sussidi impropri incrociati che alla rete territoriale di Poste vengono dalla raccolta di risparmio e assicurativa, e significa porre le premesse perché nel delivery postale Poste si internazionalizzi come è accaduto in passato per le Poste tedesche e olandesi. Considerazioni analoghe valgono per Fs. Occorrono tre scelte chiare, di principio.
Quali?
Nel PNR del governo Renzi si parla per la prima volta di una separazione verticale e totale di attività nel gruppo Fs. Non riguarda solo la rete di RFI rispetto a Trenitalia. Bisogna distinguere, appunto, tre cose.
Primo, sulla rete, investimenti e redditività vanno sottoposti a un’inflessibile rinegoziazione con lo Stato e l’Autorità di settore, in modo che non sia un ostacolo alla concorrenza e che gli investimenti pubblici annuali non autofinanziati da Fs siano parametrati al ritorno atteso tariffario regolamentato. Oggi i più polemizzano perché Fs investe poco, ma è lo Stato che ha tagliato i fondi mentre il gruppo ha accresciuto di molto la quota autofinanziata in conto economico, e mediante obbligazioni che hanno ottenuto ottima accoglienza sui mercati internazionali.
Secondo: nell’offerta di servizi, la separazione tra attività aperte a concorrenza e di puro mercato, come l’AV (e il cargo, voglio sperare), è altra cosa rispetto a tutti i servizi ferroviari da comprendere negli obblighi di servizio universale.
Gli italiani continuano a credere che Fs debba dare più servizi a tutti prescindendo da chi paga, e le Regioni a propria volta sono abili nel rilanciare la polemica sulle spalle di Moretti. Ma è un errore. Moretti ha posto da anni all’azionista pubblico il problema degli oneri da servizio universale, nel trasporto pubblico locale e regionale, ma anche su molte tratte che non sono comprese nei due comparti ma continuano a non essere remunerative.
Ma lo Stato è sempre rifuggito da una risposta chiara, e si procede ogni anno con ricontrattazione delle quote finanziarie di copertura degli oneri. Siccome la coperta della finanza pubblica è corta a Roma come nelle Regioni, ecco l’origine del problema. Ma a Moretti io riconosco che ha posto il problema, non si è mai tirato indietro.
Solo che è un classico problema che deve risolvere un’Autorità indipendente dei Trasporti, fissando il perimetro dei servizi e i criteri di finanziamento. La politica non ce la fa nel nostro Paese. Sul cargo, quando anni fa Moretti chiese l’ok alla politica per una drastica revisione dei tanti servizi punto-punto non remunerativi, la politica insorse localmente e centralmente. E anche di questo sono figlie scelte discutibili, su un servizio che non ha saputo risolvere ancora il problema del collegamento logistico del sistema portuale italiano verso il Nord Europa, mentre aprivamo giustamente le porte alla concorrenza di DB in tutta la Padania.
Terzo: è dalle prime due scelte che dipende che cosa quotare di Fs, non dal criterio della massimizzazione dell’incasso tenendo insieme un gruppone di attività diverse per tipologia di offerta e modalità di finanziamento e ricavi.
Questo è ciò che pensa un liberal-liberista. Che paradossalmente aggiunge: se ci fosse un azionista pubblico finalmente convinto di questi criteri di mercato, il manager migliore per fare tutte queste cose resterebbe proprio Moretti.
Uno al quale va giustamente il sangue alla testa, vedendo che noi a francesi e tedeschi abbiamo aperto le porte, non dico spalancate ma aperte sì, mentre loro a casa loro si guardano bene dal fare lo stesso con noi.