Umberto Eco, L’Espresso 30/05/2014, 30 maggio 2014
QUANDO I CINQUANTENNI ERANO VECCHI
Nei primi anni Settanta, quando mi avviavo verso la quarantina, un amico un giorno ha detto a me e a mia moglie che stava per compiere cinquant’anni. Lo abbiamo guardato meravigliati, e un poco sgomenti: era l’amico più vecchio che mai avessimo avuto. Cinquant’anni era un’età venerabile da signore anziano. Nel giro di una decina d’anni anch’io sono arrivato ai cinquanta, ma il panorama intorno a me, vorrei dire il comune sistema d’attese, era già cambiato: cinquant’anni era una età da adulto nel pieno della sua maturità, ma non faceva pensare alla canizie. Anzi, personalmente stavo per iniziare una seconda vita, quella di romanziere, e quindi mi sentivo un esordiente.
Oggi i cinquantenni quando si incontrano si danno del tu, come facevamo noi a vent’anni: si considerano dei giovani adulti con ancora moltissimi decenni di attività davanti a sé. D’altra parte da tempo i miei colleghi gerontologi dell’università mi avevano detto che per loro la vecchiaia iniziava a settantacinque anni, e oggi mi capita di avere amici ultranovantenni, la cui energia non mi stupisce, e persino un amico, alquanto più agile di me, che ha compiuto centoquattro anni. E pensare che quando ero ragazzo se qualcuno compiva cento anni finiva con la foto sulla “Domenica del corriere” insieme alle zucche di cinquanta chili e i vitelli con due teste.
QUESTO VUOLE DIRE che l’asticella dell’età, nel giro di circa mezzo scolo, si è enormemente alzata e non mi stupirei che col procedere dei decenni, nel 2050 un centenario si chieda incuriosito come impiegherà i cinquant’anni che gli rimangono da vivere.
Se solo di questo si trattasse, dovremmo celebrare un trionfo biologico, dovuto ai tanti fattori che sappiamo, migliore nutrizione, sviluppi prodigiosi della medicina, pratica diffusa dei controlli preventivi. Naturalmente questo vale per i paesi dell’occidente, mentre in Africa muoiono di fame i bambini, ma è della nostra zona che stiamo parlando. Perché è in questa zona che si sta verificando quello che potremmo definire un controfenomeno. È che abbiamo visto come in epoca di crisi, quando le aziende falliscono e chiudono o vengono severamente ridimensionate, quando improvvisamente persone di cinquanta o più anni si trovano a dover ricominciare, anche se hanno una buona esperienza di lavoro, magari come dirigenti, nessuno li vuole più, ed entrano in una zona vaga, dove non sono ancora individui pensionabili ma non sono neppure più forza lavoro appetibile.
IL FATTO CHE LE AZIENDE non assumano neppure i giovani è fatto transitorio, dovuto appunto alla crisi. Ma, appena la crisi fosse finita, il mercato del lavoro si riaprirebbe per chi ha trent’anni e non per chi ne ha compiuti più di cinquanta.
Ma come? Gli ultracinquantenni sono ormai dei giovanotti eppure il mercato questi giovanotti non li vuole più? Eh già, assistiamo a una sorta di contraddizione tra biologico e sociologico. La biologia ci conserva sempre più giovani, ma la sensibilità corrente non è stata ancora capace di adeguarsi a questa evoluzione naturale e considera ancora socialmente anziani (e quindi indegni di investimento) i cinquantenni.
Lasciando da parte i guai di un periodo di crisi come quello che viviamo (in cui i venti-trentenni dovrebbero essere immessi nel mercato del lavoro, ma non ci sono soldi, e a maggior ragione non ci sono per i cinquantenni, se pure li ritenessimo ancora utilizzabili), quando si ricreassero situazioni normali, l’opinione comune si allineerebbe sugli sviluppi della biologia o continuerebbe a ragionare come al tempo in cui i centenari facevano notizia? Se dovesse prevalere l’ipotesi più pessimistica, così come oggi abbiamo una massa enorme di giovani parcheggiati in attesa di lavoro e mantenuti dagli anziani che ancora non sono stati estromessi dal ciclo produttivo (o percepiscono una pensione), avremmo una massa enorme di cinquantenni (giovanilissimi) senza lavoro, parcheggiati da qualche parte, immagino a spese dei figli.