Matteo Motolese, il Sole 24 Ore 25/5/2014, 25 maggio 2014
QUESTO TITOLO € UN PO’ SBAGLIATO
Tra le metafore che descrivono la nostra epoca, quella della liquidità di Bauman è certamente la più celebre e, forse, la più potente. Per il modo in cui rende l’idea di trasformazione delle dinamiche sociali, la complessità, l’incertezza in cui ci troviamo a vivere. Ma può tornare utile anche per descrivere come è cambiata l’idea di norma linguistica dei nostri tempi. Meno rigida, flessibile, legata ai contesti, alle situazioni, ai registri. Calata nel tempo, dinamica, aperta agli usi vivi e quotidiani. L’opposto cioè dell’idea solida, compatta, immobile, che la grammatica evoca nella mente di molti di noi sulla base dei ricordi scolastici.
È a partire dagli anni Ottanta che si è imposta, tra gli specialisti, una valutazione dei fatti linguistici più attenta alle esigenze espressive, funzionali. L’immagine più usata era allora quella dei vestiti: non si va con lo smoking allo stadio. L’approfondimento storico e gli studi sul parlato hanno permesso di guardare a espressioni prima giudicate errate da un’angolazione diversa: tipico l’uso di a me mi, oggi rubricato come normale nel parlato.
Si può dire che questo modello abbia ormai largo spazio anche nella divulgazione. Lo si può vedere prendendo in mano l’ultimo dei manuali di pronto soccorso linguistico arrivati in libreria. Lo ha scritto Silverio Novelli, giornalista e lessicografo, con una lunga esperienza sul campo: è lui ad aver risposto negli ultimi anni alle centinaia di dubbi linguistici posti dagli utenti sul portale della Treccani. Il titolo richiama la celebre "guida pratica allo scrivere e al parlare corretto" di Aldo Gabrielli Si dice o non si dice? (Mondadori 1969, ancora oggi ristampato). Ma lo trasforma con l’aggiunta della risposta: dipende.
L’idea è molto semplice. Poiché non usiamo sempre la stessa lingua, tanto vale rendere le cose chiare. E modulare ogni regola a seconda delle situazioni d’uso attraverso un sistema di simboli. Esempio. Si può dire «un gruppo di persone vanno»? Risposta: dipende. Va bene nella lingua scritta informale (ad esempio in un messaggio via cellulare) oppure parlando con un amico; è sbagliata se state scrivendo una relazione oppure parlate alla radio (l’accordo grammaticale è con gruppo, singolare). Lo stesso vale per l’uso del doppio imperfetto nel periodo ipotetico della irrealtà (se potevo, venivo): a lungo considerato sbagliato nonostante una vitalità che dura ormai da secoli, è oggi preferibile nel parlato, ma da evitare negli usi scritti formali. Le icone che accompagnano le spiegazioni – spesso brillanti – collocano ogni espressione su una scala che va dall’italiano scritto di tipo formale sino al parlato spontaneo. Fa categoria a sé l’italiano scolastico, su cui torneremo.
Qual è il vantaggio di una simile soluzione? Direi: non tanto quello di poter dare a colpo d’occhio l’accettabilità di un’espressione in questo o quel registro dell’italiano. Quanto piuttosto quello di rendere più elastica l’idea di norma linguistica che può avere il lettore che ricorre a un simile strumento. Più moderna e adatta a un mondo in cui, per dirla ancora con Bauman, «la flessibilità è subentrata alla solidità come stato ideale delle cose e delle relazioni» (così nella introduzione alla riedizione di Modernità liquida, nel 2011).
È chiaro che si hanno ampie zone in cui la flessibilità non esiste. Scrivere pò, stò, istruzzione è sempre sbagliato; orrori del tipo in questa storia non pretendo di c’entrare restano tali in ogni situazione; dire persuàdere, dissuàdere è sempre inaccettabile (sono verbi di origine latina con l’accento sulla penultima), così come pronunciare io dèvio.
Ma in altri casi il grado di infrazione è meno grave e la tolleranza maggiore. E qui la metafora della liquidità evocata all’inizio può tornare utile per descrivere anche qualcosa di diverso rispetto alla flessibilità: la differenza di pressione.
È evidente infatti che la norma linguistica non pesa in tutti gli àmbiti allo stesso modo. Nell’italiano scritto di tipo formale la pressione è fortissima: in un articolo scientifico l’italiano dev’essere impeccabile. Ma se cambiamo registro e passiamo a un àmbito più familiare la pressione diminuisce: non ci scandalizziamo se qualcuno, in una e-mail privata, scrive ci nel senso di "a lui" (ci ho parlato) oppure usa, parlando, forme come benedivo o soddisfavo invece che benedicevo, soddisfacevo. Il nostro grado di tolleranza cresce in modo inversamente proporzionale alla formalità. Fino a zone in cui la pressione è praticamente assente. Parlando con la propria compagna si può anche dire senza te saltando la preposizione oppure, in un messaggio su twitter, scrivere dò. Non perché sia giusto ma semplicemente perché la norma qui in sostanza non agisce più. È una zona franca: l’errore quasi non conta.
Ho lasciato volutamente da parte l’italiano scolastico. Perché si tratta di un mondo che, per lungo tempo, ha mantenuto in vita una lingua scomparsa altrove. Quell’italiano delle maestre, come è stato chiamato, in cui bisognava usare ella invece che lei come soggetto, recarsi invece di andare, e rispettare regole ortografiche a volte prive di senso, come quella che vietava l’uso di mantenere l’accento di sé anche davanti a stesso. Una lingua che certo esiste ancora da qualche parte, ma è – bisogna dirlo – sempre meno presente. Sessant’anni fa era tutto così. Nei programmi ministeriali anche la distinzione tra scritto e parlato era scoraggiata: «l’insegnante tenga presente che una persona dimostra tanto meglio la sua padronanza del linguaggio, ossia di raziocinio e di gusto, quanto più scrive come parla e parla come scrive». Era il 1955, programmi Ermini. Poi, lentamente, il ghiaccio ha cominciato a sciogliersi.