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 2014  maggio 30 Venerdì calendario

QUEL CHE RESTA DI BERLINGUER

[Intervista a Emanuele Macaluso] –

Ber-lin-guer. Ber-lin-guer.
Trent’anni dopo il suo funerale, piazza San Giovanni è tornata ad acclamare il suo nome, solo che al posto delle bandiere rosse c’erano quelle del Movimento 5 Stelle. E il segretario del Pci è finito conteso tra due piazze contrapposte, quella di Beppe Grillo e quella del Pd, di Matteo Renzi, che dichiaratamente si è proposto l’obiettivo di rottamare la tradizione e la forma-partito della sinistra berlingueriana. Si rivendica il nome di Enrico, ma non le sue idee. Emanuele Macaluso è stato dirigente di quel Pci che raggiunse il massimo storico alle elezioni del 1976 e sfiorò l’area di governo, il più berlingueriano dell’area migliorista, la destra interna del Pci, grande amico del leader scomparso a Padova. Reagisce indignato: «Grillo si qualifica come l’uomo dell’anti-politica e evoca l’uomo che è stato il meglio della politica: una strumentalità mostruosa. Ma anche l’altro... se c’è un personaggio lontano da Berlinguer quello è Renzi. Renzi gioca tutto sull’immagine, la velocità, la figura del capo, Berlinguer al contrario cercava un domani, si muoveva in un orizzonte vasto, un processo storico da costruire. Era il segretario di un grande partito organizzato, mentre il Pd non è mai diventato un partito, non ha mai avuto un asse politico-culturale cui aderire».
Berlinguer è un’icona pop, un marchio di successo, si direbbe, al punto che due personaggi sensibili all’audience come Grillo e Renzi hanno gareggiato per rivendicarne l’eredità. Eppure non avrebbero mai fatto lo stesso con la storia del Pci. Come spiega la resistenza di Berlinguer nell’immaginario?
«Ho visto che in questi tre decenni l’attenzione per Berlinguer è cresciuta, non diminuita. È successo lo stesso per Aldo Moro. Non è nostalgia, è una speranza, un’attesa, una richiesta. Il segno che in questa stagione di miseria della politica anche le giovani generazioni cercano un’idea alta. Quando vado in giro mi chiedono: dicci che cos’era la politica. E Berlinguer, al di là della sua statura morale, rappresenta la qualità della politica, lontana da Berlusconi, Grillo e anche da Renzi».
Qual è la parte più viva della sua eredità?
«Berlinguer è il suo tempo, gli anni Settanta e i primi anni Ottanta, il mondo è cambiato. Ma c’è un punto che resta attuale. Perché Grillo ha avuto successo? Perché in questi decenni è stato demolito il progetto di ricostruire un sistema politico funzionale basato sui partiti. Partiti rinnovati, agili, non quelli del passato, sia chiaro. Ma guardi la situazione: l’opposizione è monopolizzata dai 5 Stelle che vogliono distruggere tutto, processare i giornalisti sul Web e cacciare via il presidente della Repubblica. Il centrodestra vive un problema esistenziale legato al destino di Berlusconi. E nel Pd Renzi ignora il partito, i corpi intermedi, il sindacato. Chi rivendica l’eredità di Berlinguer dovrebbe chiedersi: è possibile ricostruire un sistema razionale in cui i partiti abbiano un ruolo diverso da quello che hanno avuto nella Prima Repubblica e da quello che "non" hanno avuto nella Seconda, ma che tuttavia siano una forza di rappresentanza? È una domanda che dovrebbero farsi i giovani politici, ma anche gli intellettuali, i giornalisti che intervengono solo criticamente, per demolire, senza una visione del Paese».
Eppure Berlinguer è un punto di riferimento per la sua denuncia della questione morale. Applicando gli schemi attuali qualcuno lo accuserebbe di anti-politica.
«Non è così. Enrico era il segretario del Pci, un comunista italiano. Collocava la questione morale nel superamento del capitalismo, nel transito verso il socialismo. Non si può isolare la denuncia dell’occupazione partitica delle istituzioni da questa visione, non si può tagliare Berlinguer a spicchi. È stata costruita l’immagine di un Berlinguer anti-moderno, un moralista, un monaco con la frusta in mano, ma lui era un "totus politicus". Anche la sua proposta di austerità era il tentativo di indirizzare la società dei consumi con l’intervento pubblico, condiviso da Ugo La Malfa che voleva ritardare l’inizio della tv a colori».
Però in quei primi anni Ottanta il nemico numero uno del Pci è Bettino Craxi. Lei è un avversario del giustizialismo, ma il primo a rivendicare le mani pulite e a difendere l’operato dei magistrati è stato Berlinguer.
«Anche questa è una semplificazione. Guardi qui, questa è la prima pagina dell’ "Avanti!", il quotidiano del Psi, datata primo aprile 1983. C’è il comunicato finale dell’incontro delle Frattocchie tra le delegazioni del Pci e del Psi, con Berlinguer e Craxi. Si parla di "comune preoccupazione" per l’economia, di "volontà di giungere a rinnovate e più estese collaborazioni". E poi c’è il passaggio sulle inchieste giudiziarie che avevano messo in crisi la giunta rossa a Torino: "Se è giusto che chi ha sbagliato risponda delle sue azioni senza godere di privilegi e coperture, è preoccupante il concentrarsi sulle giunte di sinistra di attacchi mossi da una ispirazione politica. Alcune delle iniziative giudiziarie in corso non possono non suscitare forti dubbi di strumentalizzazione"».
Resta che quello fu l’ultimo incontro di rilievo tra Berlinguer e Craxi. E che mai Berlinguer si alleò con Craxi, rivendicando con orgoglio la sua diversità.
«In mezzo c’è la nascita del governo Craxi che provocò in Bettino un’accentuazione dell’anti-comunismo: sognava di essere il Mitterrand italiano, di conquistare l’egemonia. Tra di noi ci fu una sottovalutazione del carattere di novità di quel governo. Io scrissi sull’"Unità" l’editoriale critico con quell’operazione, fu responsabilità anche mia. L’unico a dissentire fu Luciano Lama. C’era un motivo: Berlinguer nel 1976 aveva portato il Pci nell’area di governo, nel 1980 la Dc del preambolo ripropose la conventio ad excludendum, Craxi ci risospinse all’opposizione, l’obiettivo di Berlinguer diventò dimostrare che senza il Pci non si può governare. Una scelta dettata dalla politica, non dal moralismo».
Nella svolta del 1989, il cambio del nome del Pci, colpisce che Berlinguer sia dimenticato sia dai sostenitori che dagli oppositori.
«Achille Occhetto era stato a lungo il giovane della segreteria, era considerato un berlingueriano, gli riconosco il coraggio. Ma il fronte del no era guidato da Alessandro Natta che era stato eletto segretario del Pci dopo la morte di Berlinguer perché considerato da tutti il continuatore della sua politica. Entrambi hanno resistito alla tentazione di strumentalizzare Berlinguer».
Tra i ragazzi di Botteghe Oscure che hanno dominato il ventennio successivo, Massimo D’Alema e Walter Veltroni, chi è il più berlingueriano?
«Entrambi hanno fallito sull’elemento essenziale della politica di Berlinguer, la costruzione di un grande partito. A Walter riconosco un elemento di sincerità, gli voglio bene, ma è arrivato a scrivere che nel Pci di Berlinguer si poteva essere kennediani. E da segretario dei Ds, in piena campagna elettorale, mollò tutto per candidarsi a sindaco di Roma. D’Alema fu eletto segretario del Pds nel 1994 perché garantiva che si sarebbe dedicato a ricostruire il partito, invece dopo poco tempo lo affidò a Marco Minniti e Pietro Folena. Non si sono mai dedicati a ricostruire il partito, anzi, hanno lavorato per destrutturarlo. E oggi siamo arrivati a Renzi che della destrutturazione ha fatto un progetto politico».
Non sarà che per lei il vero erede di Berlinguer è un personaggio che in vita si è spesso distinto: Giorgio Napolitano?
«Tra i due c’era un’amicizia personale e un contrasto sulla linea politica nella fase finale. Li accomunava la passione per la politica internazionale. Giorgio è sempre stato l’esponente del Pci più legato alle istituzioni, Enrico era l’uomo del partito. Ma è vero che entrambi hanno guardato alla politica come strumento dell’interesse generale. Per questo Napolitano non è mai stato il presidente di una parte, della sinistra, ma di tutti gli italiani, più di tutti i suoi predecessori, a costo di dover subire attacchi da destra e da sinistra».
Le viene mai da pensare: che cosa avrebbe detto oggi Enrico?
«Mi manca moltissimo sul piano personale. Nessuno lo sa, ma tra di noi si era sviluppato un rapporto di amicizia intima, confidenziale. Mi chiedo spesso: cosa avrebbe fatto se fosse stato vivo nel 1989? Credo che avrebbe legato il cambiamento del partito a quanto da lui operato in precedenza, non in continuismo ma in continuità con la nostra storia e con la sua. E sarebbe riuscito a convincere Natta, Tortorella, Ingrao. Enrico Berlinguer aveva l’autorità personale e politica per farlo. E oggi chi rivendica la sua eredità deve partire da qui: ricostruire un grande partito».