Gianni Perrelli, L’Espresso 30/05/2014, 30 maggio 2014
ASSAD FOREVER
Il tuo voto è la tua protezione, è la tua libertà», si sgola sui canali tv la popstar Shadi Aswad, idolo della gioventù siriana. Arruolato dai consulenti di Bashar al-Assad per motivare un elettorato quanto meno stordito dopo oltre tre anni di guerra civile e un terrificante bilancio di quasi 150 mila morti. Altri divi dello spettacolo come Duraid Lahham, Salma Al-Masri e Sulaf Fawakherji inondano di spot le trasmissioni radiotelevisive, incitando a non disertare le urne alle presidenziali del 3 giugno. «Andiamo ai seggi per costruire la vittoria della Siria», è lo slogan martellante che si sforza di battere lo spettro dell’astensionismo.
Per il regime baathista (socialismo panarabo) e i 23 milioni di siriani (9 erranti lontano dalle loro case fra le macerie di un Paese ancora in fiamme e i campi profughi all’estero) non c’è il minimo dubbio che Assad, 48 anni, conquisterà con numeri surreali il suo terzo mandato. Non forse con l’umoristico 99 per cento e passa del 2000 e del 2007, ma pur sempre con percentuali schiaccianti. Non solo per l’incerta trasparenza delle modalità di voto, accentuata dal riflesso condizionato della paura per le possibili ritorsioni, e per il ferreo controllo governativo dei media. Ma anche per l’inconsistenza degli altri due candidati. Dei 24 pretendenti alla corsa presidenziale, che per iscriversi dovevano dimostrare di aver vissuto ininterrottamente negli ultimi dieci anni in Siria, l’Alta Corte Costituzionale ne ha ammessi solo due. Non si sa per quali requisiti. Formalmente dovrebbero rappresentare le correnti dell’opposizione dialogante. Ma i trascorsi li rendono poco credibili. Il primo, Hassan bin Abdullah Al-Nouri (54 anni), è un uomo d’affari di Damasco che fu ministro senza portafoglio nel governo di Hafez al-Assad (il padre di Bashar). Il secondo, Maher Abdel Hafiz Hajjar (43 anni), è un comunista originario di Aleppo che prima della guerra civile aveva organizzato qualche pacifica manifestazione contro il governo. Ma nel suo ufficio, dietro la scrivania, campeggia il ritratto di Bashar. Segno, perlomeno, di non aperta ostilità.
"Elezioni farsa" secondo la galassia dei ribelli e le cancellerie occidentali che, sotto la guida della Francia, hanno cercato invano (è subito scattato il veto di Russia e Cina) di far passare una risoluzione all’Onu per trascinare davanti alla Corte Penale Internazionale dell’Aja il regime siriano accusato di crimini contro l’umanità. Ma Bashar confida che lo scontato successo elettorale gli restituisca almeno una parvenza della legittimità distrutta dalla feroce repressione. Fino all’estate scorsa, dopo la strage compiuta con l’uso di armi chimiche a Ghouta (non è chiaro se eseguita dai lealisti o dai ribelli), il leader dai due volti (ragionevole nelle forme, spietato nella sostanza) era sull’orlo del baratro. Barack Obama stava pianificando un intervento militare degli Stati Uniti, che in pochi giorni l’avrebbe estromesso dal potere. Ma Assad fu salvato dalla Russia, che non intende rinunciare all’uso della base navale di Tartus, l’unica finestra del Cremlino sul Mediterraneo. Vladimir Putin suggerì (o intimò) a Bashar di smantellare l’arsenale chimico. Le barbarie compiute nel frattempo anche dagli insorti, finanziati dall’Arabia Saudita e dal Qatar, e il rischio che tra le forze della guerriglia prevalessero le componenti del fanatismo islamico vicine a Al Qaeda costituirono un’ulteriore boccata di ossigeno per il regime agonizzante. Dopo il fallimento delle trattative di pace di Ginevra, dove gli oppositori chiedevano la cacciata preventiva di Assad, il regime ha potuto far leva sulla paura che a Damasco si insediasse l’integralismo fautore della sharia. A distrarre infine l’attenzione mondiale ha contribuito la grave crisi ancora in corso in Ucraina, che ha relegato mediaticamente in secondo piano gli orrori del conflitto siriano. Assad ha approfittato dell’effetto rimozione per giocarsi la carta elettorale. Agli occhi della borghesia degli affari e delle minoranze confessionali può apparire oggi come il male minore di fronte alla prospettiva di un cambio della guardia ancor più minaccioso.
Per centrare l’obiettivo, anche se soltanto a fini interni, il regime ha però bisogno di una grande affluenza alle urne. Obiettivo non facile in un Paese dove i seggi non potranno essere aperti nelle aree in mano agli insorti (un terzo del territorio nazionale). Per facilitare l’accesso al voto, il governo ha disposto che chi non potrà esercitarlo nella città di residenza avrà l’alternativa di esprimere la sua scelta a Damasco, ammesso che riesca a raggiungere la capitale attraverso strade perlopiù disastrate e infestate di pericoli.
La campagna elettorale è soffocata dagli eventi bellici. La stessa blindatissima Damasco è esposta ai colpi di mortaio dei ribelli che hanno le loro roccaforti a Jobar, Harasta e Duma (sulle vicine pendici) e nella città di Daraya. Assad è comparso in pubblico a Pasqua nella Maalula liberata e in altri luoghi sicuri della capitale. La moglie Asma concorre a recuperare consensi dedicandosi alle operazioni umanitarie. I comizi dei sostenitori del governo si svolgono al chiuso da quando una bomba a Daraa ha provocato la morte di 22 partecipanti a una riunione sotto una tenda. Al candidato Hajjar i servizi segreti hanno addirittura proibito di muoversi da casa per motivi di sicurezza.
Le strade di Damasco sono un groviglio di posti di blocco. E la gente, che pure si è abituata ai disagi della guerra e nei limiti del possibile cerca di svolgere una vita normale, sembra poco coinvolta nella competizione elettorale. Ad Aleppo, ancora divisa fra i contendenti, i cittadini rimasti intrappolati fra i bombardamenti sono angosciati soprattutto per la mancanza d’acqua e la carestia di cibo a cui fra immensi problemi sta cercando di rimediare la Croce Rossa.
Più che di continuità c’è voglia di normalità. Si capta nell’aria l’ansia di fugare la disperazione per una guerra che, oltre alla catastrofe umanitaria e ai lutti che hanno coinvolto quasi tutte le famiglie, ha messo in ginocchio l’economia, distrutto l’industria e l’edilizia, paralizzato i trasporti. L’esercito lealista nell’ultimo anno ha guadagnato terreno grazie all’apporto degli Hezbollah (i guerriglieri libanesi alleati con Assad) che hanno prima espugnato Yabrud e Ras Al-Ayn (dove venivano preparate le autobombe degli insorti destinate a scoppiare nei quartieri sciiti di Beirut). Dai due avamposti ai confini con il Libano non è stato difficile liberare la strada che da Damasco conduce a Latakia, la roccaforte alauita (ramo eterodosso degli sciiti) da sempre feudo degli Assad. Da lì è proseguita l’avanzata per la riconquista di Homs e del Krak dei Cavalieri, il castello medievale che era diventato un quartier generale dell’insurrezione. La battaglia oggi infuria intorno ad Aleppo. Negli ultimi giorni l’esercito di Assad ha ripreso dopo un anno di assedio il controllo della prigione centrale, collocata lungo l’arteria strategica attraverso cui passavano i rifornimenti per i ribelli. E ora si sta preparando a sferrare un’offensiva finale per reimpadronirsi del territorio fino alla frontiera con la Turchia.
Le sorti della guerra si sono capovolte anche per il massiccio impiego delle "barrel bombs", i micidiali ordigni imbottiti di esplosivi, schegge di ferro e materiale infiammabile che vengono sganciati dagli elicotteri e provocano devastazioni a larghissimo raggio. Ma anche se priva di una contraerea e costretta ad arretrare, la resistenza degli insorti non è prossima alla capitolazione. Ad Aleppo e Idlib il ribelli riescono ancora a sferrare colpi mortali preparando attentati lungo i cunicoli sotterranei. L’Arabia Saudita continua a finanziare i nuclei fondamentalisti dell’Esercito siriano di liberazione nelle cui file militano circa 200mila combattenti. Il problema sono i contrasti interni. La componente meno religiosa e più politicizzata della galassia, guidata dai generali che hanno voltato le spalle ad Assad e che continua a essere supportata dal Qatar, è spesso scavalcata dai miliziani di Jabhat al Nusra, una succursale di Al Qaeda a cui si devono i successi militari più significativi ma anche le più brutali nefandezze (crocifissioni di cristiani, sequestri prolungati di stranieri fra cui il sacerdote italiano Paolo Dall’Oglio, da mesi nelle grinfie dei terroristi ma secondo un sito jihadista ucciso due ore dopo il sequestro). Ma nel recinto dell’estremismo sunnita si è aperto intanto un fronte interno, da quando nel conflitto si è catapultato l’Isil, lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante che partendo dalle sue basi di Falluja progetta di instaurare un califfato e sta contendendo con aspri combattimenti ad al Nusra la leadership della guerriglia. Il miniconflitto si è concentrato soprattutto intorno ai pozzi petroliferi di Deir Ezzor, da cui sono già fuggiti 60mila residenti in preda al panico. La posta in palio è il controllo del greggio che, rivenduto in Turchia, consente un costante rifornimento di materiali bellici.
Nel caos si è anche riaffacciato l’incubo delle armi chimiche. Assad si era impegnato a distruggerle entro giugno del 2014. La tabella di marcia finora è stata rispettata. Oltre il 90 per cento dei vecchi ordigni è stato smantellato. Ma, secondo i ribelli, ingredienti sospetti sarebbero stati rintracciati nelle bombe lanciate dagli aerei di Assad a Daraya e nei sobborghi di Damasco. «Negli attacchi degli ultimi mesi», denuncia Sinan Hatehet, portavoce degli insorti, «sono state impiegate alte dosi di clorina e pesticidi». I lealisti ritorcono le accuse contro i ribelli: un carico di armi chimiche sarebbe stato intercettato dai servizi segreti libici su un convoglio di estremisti diretto in Siria.
Nella tragedia siriana comincia però a balenare pure qualche barlume di luce. A Homs, la città martire ora di nuovo in mano al regime, un gruppo di imprenditori guidato dall’uomo d’affari Abdel-Nasser Al-Cheikh Fattouh ha avviato un progetto di ricostruzione nell’edificio di una vecchia scuola, dove ha trovato rifugio un centinaio di famiglie. Agli ex sfollati sono stati distribuiti gratuitamente gli strumenti dei loro mestieri (elettricisti, idraulici, falegnami, parrucchieri). Ai beneficiati viene chiesto in cambio di provvedere alla formazione professionale di giovani apprendisti. Una catena di solidarietà dopo tante sventure. Un raggio di speranza, anche se nessuno si illude che il 4 giugno, dopo il voto, la Siria possa avviarsi verso la pace.