Stefania Rossini, L’Espresso 30/05/2014, 30 maggio 2014
COM’È VUOTA LA PAROLA ANTIMAFIA
[Colloquio con don Luigi Ciotti] –
Nel salottino che fu di una prostituta e che oggi è il suo quartier generale, don Luigi Ciotti ci parla di sé e delle sue opere. Il tono della voce è cantilenante, come capita ai preti, ma gli argomenti sono decisi, a volte duri, capaci di scomporre l’idea comune su quest’uomo di chiesa di 69 anni che da 50 si batte per gli esclusi e ha fatto della legalità e della giustizia lo scopo di una vita. Ma, ci dice, non è più così. Quelle due parole su cui ha costruito una rete imponente di attività e associazioni in tutta Italia, sono state svuotate da chi ne ha abusato alla ricerca del consenso. Oggi bisogna trovarne altre. E mentre le espone, don Ciotti mostra un’energia, quasi un fuoco, che forse non è acceso soltanto dalla fede, come ci racconterà nel corso di questo lungo colloquio che ha accettato di rendere anche confidenziale.
Siamo all’ultimo piano di una palazzina del centro di Roma, confiscata anni fa al boss della camorra Michele Zaza che l’aveva adibita a bordello di lusso: su ogni piano, un salotto, un’alcova e un bagno. Oggi è la sede nazionale di Libera, con scrivanie e computer, volontari e dipendenti, telefoni che squillano, e un via vai di persone che ruota attorno a questo prete anomalo che è sempre piaciuto poco alle gerarchie vaticane.
E invece due mesi fa Papa Bergoglio l’ha preso per mano di fronte a centomila persone. Quasi una consacrazione.
«È stato un gesto spontaneo. Francesco ed io ci siamo guardati in faccia e ci siamo trovati a tenerci per mano. Lui aveva accettato di partecipare alla nostra veglia annuale con i familiari delle vittime della mafia. Ha ascoltato commosso, nome per nome, il lunghissimo elenco dei morti».
Se lo sarebbe mai aspettato un papa così?
«Non ne ho conosciuti altri. Giovanni Paolo mi aveva chiamato in Vaticano per una commissione sulla dipendenza da droghe, ma non l’ho mai incontrato perché al primo appuntamento mi presentai senza neanche il collare da prete e non mi fecero entrare».
Beh, deve riconoscere che ci mette del suo.
«Noi preti di strada non sempre riusciamo a farci capire. Forse perché cerchiamo Dio attraverso le persone, e non viceversa. Il primo richiamo lo ebbi già nel 1978, il giorno del giuramento di Pertini. Dato che era un presidente laico, la Rai pensò di trasmettere la messa da una nostra comunità d’accoglienza. Io la celebrai su un carro da buoi e scoppiò un putiferio. Qualcuno parlò addirittura di messe nere. Ma è anche andata peggio di così».
Quando?
«Quando firmai il documento delle Nazioni Unite che proponeva il preservativo come uno degli strumenti per evitare il contagio. Mi occupavo di malati, allora tutti terminali, conoscevo da vicino il loro strazio e avevo fatto una scelta ponderata che non fu apprezzata. Ma ora l’aria è cambiata. Pensi che Francesco ha avuto persino l’umiltà di dirmi: “Mi mandi qualche appunto sulle mafie”».
Che cosa gli ha scritto?
«Quello che so e quello che va cambiato. A cominciare da parole una volta nobili e ora snaturate da un uso superficiale che le ha rese inservibili. Oggi tutti parlano di pace, di diritti, di giustizia e soprattutto di legalità, che è diventata fluida, malleabile, piegata ai bisogni di chi la pronuncia. L’uguaglianza di fronte alla legge ha bisogno di uguaglianza sociale, altrimenti la legalità diventa una discriminazione tra chi sta bene e chi tira la cinghia. Per non parlare dell’antimafia”...».
Parliamone.
«È ormai una carta d’identità, non un fatto di coscienza. Se la eliminassimo, forse sbugiarderemmo quelli che ci hanno costruito sopra una falsa reputazione. Per fortuna anche qualche politico lo ha capito. Rosy Bindi, presidente della Commissione antimafia, all’inizio criticata perché ritenuta incompetente, è stata qui ore e ore ad ascoltare con umiltà la nostra esperienza, ha approfondito e oggi si muove molto bene in un territorio scivoloso e difficile, a cui l’etichetta di antimafia non aggiunge niente. Anzi».
Proponga allora una parola nuova.
«Responsabilità. Sembra semplice, ma è la più impegnativa e basterebbe da sola a cambiare le cose».
Don Luigi, lei si ritiene una persona buona?
«Perché mi fa questa domanda?»
Perché un romanzo di Luca Restello appena uscito, intitolato appunto “I buoni”, parla di un prete che le somiglia troppo, la cui presunta bontà è intrisa di spregiudicatezza e potere. L’ha letto?
«Mi sono rifiutato, ma me lo hanno raccontato ed è stato un dolore. Fa soffrire diventare una caricatura da parte di qualcuno che non ha il coraggio di guardarti in faccia e che non puoi neanche querelare perché si è tutelato scrivendo un’opera di presunta finzione. L’autore di quel libro è stato per qualche tempo un nostro collaboratore, e non trovo il perché di un attacco così proditorio che non ha fatto male soltanto a me, ma a molte persone che hanno visto deformata la loro vita privata e la dignità del loro lavoro. Ma per le cose che facciamo conviene abituarsi agli attacchi, anche a quelli più pericolosi».
A che cosa si riferisce?
«A dossier velenosi che sono l’arma più usata dalle mafie e a minacce dirette che, soprattutto dopo l’incontro con il papa, si sono fatte più insistenti. Una Chiesa che si schiera apertamente con le vittime della mafia deve aver disturbato non poco certe organizzazione e chi le copre».
Ha mai paura per la sua incolumità?
«A volte sono preoccupato, sì».
Si è mai chiesto che cosa l’ha spinta davvero a scegliere, tanti anni fa, questa sua strada?
«All’origine di tutto c’è una baracca in un quartiere di ricchi e una maestra sbagliata».
Racconti.
«Avevo sei anni ed ero arrivato da poco a Torino. Mio padre, che faceva il muratore, aveva il lavoro ma non la casa. Così abitavamo nella baracca del cantiere. Ero l’unico ad andare a scuola senza il grembiule e il fiocco, perché mia madre stava raggranellando ancora i soldi per comprarli. Tutti mi guardavano come se fossi strano, e anche io mi sentivo strano. Un giorno la maestra se la prende ingiustamente con me per un brusio in classe, rispondo con un gesto interrogativo come per dire “Ma che cosa vuoi?”. Lei mi ribatte “Ma che vuoi tu, montanaro!”».
Non è un insulto.
«Non lo sapevo. Venivo dalle Dolomiti dove non ci si chiama in questo modo. Così reagisco tirandole un calamaio e prendendola in pieno. Ho una sospensione di venti giorni e, da allora, i genitori vietano ai miei compagni di frequentarmi. Ero diventato il bambino cattivo che viveva in una baracca ed era pure violento».
Questa scena originaria l’ha segnata davvero tanto?
«Mi ha graffiato dentro per sempre. Io da allora so che cosa si prova ad essere esclusi e riconosco il bambino che sono stato negli occhi di ogni emarginato che incontro. Come accadde con l’uomo che, più tardi, mi ha indicato che fare: un barbone che era stato un medico con cui feci amicizia quando avevo 17 anni. Mi segnalò un bar dove i ragazzi si sballavano con alcol e farmaci. Cominciai ad occuparmi di loro, e non ho più smesso».
E poi decise di farsi prete. La sua famiglia era religiosa?
«Come tutte, ma io, che non ero accettato a scuola, trovai rifugio e amicizie nell’oratorio, poi nell’Azione cattolica. Amo il silenzio e la preghiera, ma cerco Dio soprattutto nelle persone. Sono convinto che è lui che ci fissa gli appuntamenti. Quante storie! Quanti volti!».
Non sente mai la mancanza di una sua famiglia terrena?
«Ogni tanto, perché penso che la condivisione intima con un altro essere umano sia una cosa preziosa. Ma io ho la mia grande famiglia che si rinnova continuamente e tanti figli con cui sperimentare questo diverso modo di essere padre. È una cosa che ho visto all’opera in un grande uomo che mi ha amato come un padre, il cardinale Michele Pellegrino, che è stato vescovo di Torino».
È una figura che ricorre nei racconti di molti. Anche il priore Enzo Bianchi lo venera.
«E anche il papa. Ho visto il suo volto illuminarsi quando glielo ho nominato. Ho scoperto poi che da giovane sacerdote aveva aiutato la sua famiglia che era in difficoltà economiche. Per me ha fatto molto di più. Ha venduto le croci pettorali e i calici d’oro della diocesi per darmi una mano ad aprire una struttura di accoglienza e togliere le prostitute dallo sfruttamento».
Riceve donazioni da molte persone? Sbaglio o ha anche un edificio regalato dalla famiglia Agnelli?
«Ricevo aiuti e ne chiedo senza problemi. Ma la donazione della famiglia Agnelli ha un’altra storia. In questi anni ho rifiutato molti soldi da chi voleva che parlassi di Edoardo e del suo rapporto con il Gruppo Abele. A lei posso dire che quando arrivò la malattia e la morte, ho cercato di stare vicino a un padre addolorato. Un giorno l’avvocato Agnelli mi dice: “Noi abbiamo un debito verso di te. Cosa possiamo fare?”. Non ho esitato a indicargli un edificio di una fabbrica non più in attività. I dirigenti rimasero di stucco perché pensavano al massimo a un pulmino, ma io stavo aprendo nuove strutture e avevo bisogno di sedi. Così ho avuto un contratto e, più tardi, Marchionne, per tener fede a un desiderio dell’avvocato, ce l’ha regalata».
Lei oggi è impegnato su fronti antichi e recenti. Vede qualche via d’uscita per qualcuno di questi? Per esempio, pensa che sia utile la liberalizzazione delle droghe leggere?
«Lei saprà che mi sono già espresso in questo senso, ma vorrei che si puntasse sulla prevenzione e che si cominciasse a pensare anche a nuove dipendenze come quelle che inchiodano al gioco d’azzardo e a Internet».
Sull’immigrazione ha qualche idea che non sia la mera accoglienza?
«Non ho formule e sono pieno di dubbi, ma penso che una strada sia la cooperazione e non a caso il Gruppo Abele è in Africa da anni per aiutare le persone lì, nella loro terra, a migliorare le condizioni di vita. Questo non vuol dire che non dobbiamo prendercene carico anche noi, l’Europa e il mondo intero che butta tre milioni di dollari al minuto in spese militari. Non è più possibile vedere tutti quegli esseri umani che affogano nei nostri mari. Bisogna seguire papa Francesco che sente questo strazio più di altri, forse anche per una sua vicenda familiare. È una storia inedita, vuole che gliela racconti?»
Ci mancherebbe. Sentiamo.
«È di seconda mano. Bergoglio l’ha raccontata al telefono a Carlo Petrini che me l’ha riferita. Riguarda una nave che il padre del papa, che doveva recarsi in Argentina, perse per una malattia improvvisa che gli fece disdire il biglietto.Quella nave andò a picco e centinaia di italiani morirono affogati. Ringraziamo Dio anche nella tragedia. Se suo padre avesse preso quella nave, oggi non avremmo Papa Bergoglio».
E le mafie, don Ciotti? Le fermeremo mai?
«Non lo so. Se fosse soltanto un problema criminale non sarebbe poi così difficile. La mafia è cambiata, è internazionale, diffusa e la sua forza, come sempre, è fuori dalla mafia stessa, non dentro. Io nel mio piccolo posso dire che vanno monitorati i reati spia, come la corruzione che accompagna sempre i reati mafiosi. Ma lo dico in un Paese che non è riuscito neanche a varare uno straccio di legge».
Mi dica la verità: quante volte le hanno chiesto di fare il ministro?
«Alcune, ma non ho accettato. So chi sono e dove posso arrivare. Mai, in quel mondo lì».