Maurizio Maggi, L’Espresso 30/05/2014, 30 maggio 2014
RICOMINCIO DAL DEBITO
[Colloquio Con Lucrezia Reichlin] –
Prima delle elezioni ha sdoganato un argomento mai entrato nel dibattito politico-economico, la ristrutturazione del debito pubblico italiano. Un tema tabù: l’idea che uno Stato possa non ripagare interamente le proprie obbligazioni fa tremare le vene e i polsi a politici e risparmiatori. Nonostante le critiche, Lucrezia Reichlin, docente di economia alla London Business School, direttore della Ricerca alla Bce dal 2005 al 2008, non fa marcia indietro. E chiede alla politica di mettere la questione al centro di un dibattito europeo serio: «È un tema delicato ma che dev’essere affrontato, chiarendo bene e subito che la ristrutturazione va fatta all’interno di una infrastruttura istituzionale, una cornice economica e legale a livello europeo che la renda possibile senza creare il caos».
Professoressa Reichlin, è così urgente avviare questa discussione?
«Credo sia un punto importante per il progetto di riforma dell’architettura europea, progetto in corso ma che ha tempi lunghi. Oggi, la sola istituzione che può agire con tempestività è la Banca centrale europea. Non per risolvere i problemi di sostenibilità del debito, che non le competono. La necessità di un’azione urgente viene dall’inaspettato ed eccessivo calo dell’inflazione, un male di tipo giapponese che, se non combattuto, può portare ad anni di stagnazione. Io credo che la Bce debba agire con politiche di “quantitative easing”, cioè l’acquisto di titoli pubblici e privati, come hanno fatto tutte le banche centrali del mondo, Stati Uniti, Inghilterra e Giappone: se gli acquisti sono rilevanti hanno un effetto sul premio a rischio e sui tassi di interesse. Immagino che nel caso dell’eurozona gli acquisti di titoli pubblici dovranno essere fatti proporzionalmente al Prodotto interno lordo dei diversi Paesi».
Ma così facendo non ne avrebbero vantaggio le nazioni già forti, come la Germania?
«No. Un meccanismo simile darebbe alle banche un incentivo a detenere pacchetti di titoli di Paesi diversi. Si creerebbe così un mercato integrato a livello europeo per i titoli pubblici, e questo aiuterebbe anche a superare la correlazione tra rischio bancario e rischio Paese, quello che gli economisti chiamano “loop diabolico”».
Le elezioni europee del 25 maggio, con il consistente aumento dei deputati “anti-euro” al Parlamento di Strasburgo, possono influire sull’atteggiamento della Bce?
«Effettivamente credo che il risultato dovrebbe spronare la Bce, che pure è un’istituzione indipendente, a prendere decisioni importanti con una certa urgenza».
La Bce affronterà subito l’argomento?
«È da molto che il quantitative easing è in discussione. Ma è una misura controversa perché è molto vicina alla politica fiscale, che non è di competenza delle banche centrali. Tuttavia una crisi eccezionale richiede misure eccezionali. Penso che a giugno qualche mossa sarà fatta, ma non così radicale come il quantitative easing. Non credo ci sia ancora il consenso politico. Comunque, ritengo che a Francoforte ci sia un sentimento di urgenza che sta maturando, anche se ci sono sicuramente componenti conservatrici all’interno del consiglio della Bce».
Parla dei tedeschi?
«Certo. Però la situazione è cambiata. Molti tedeschi sono convinti che per restaurare la competitività dei Paesi in difficoltà occorra passare attraverso una deflazione interna che comporti per forza la diminuzione dei consumi. È quello che sta accadendo e non vedo i tedeschi preoccupati da questa dinamica, giacché è esattamente ciò che loro pensano si debba fare. Ora, però, l’inflazione troppo bassa comincia a colpire anche loro. E questo li porta a una nuova riflessione».
Non temono che i cittadini dei Paesi in crisi non comprino più le loro belle auto?
«Non solo sono sempre più spostati sui mercati extra-europei, la loro è anche una convinzione ideologica. Una parte degli economisti ritiene che è così che si può ribilanciare l’Unione. Altri, invece, pensano che tutta l’Unione sia stata compressa da questa cappa sui consumi e auspicano politiche di espansione della domanda».
Torniamo alla patata bollente della ristrutturazione dei debiti. Non si tratta di un’opzione difensiva che rischia di azzoppare ogni ipotesi di crescita?
«La ristrutturazione parziale del debito non dev’essere demonizzata. Visto che in una unione monetaria i sistemi di aggiustamento sono di fatto inesistenti, perché ad esempio non si può svalutare la valuta, bisogna dare ai diversi Paesi dei meccanismi che possano dar fiato all’economia nel momento in cui, come nel caso dello choc esterno della crisi del 2008, il debito si porti sopra il livello di sostenibilità. Si pensi alla Grecia. Dopo avere negato la necessità di ristrutturare, alla fine si è fatto, male e in ritardo».
In Italia, però, può risultare destabilizzante.
«In Italia la discussione è complicata per vari motivi. Perché l’Italia è grande e il suo debito oggi è in gran parte detenuto dagli italiani stessi, per cui la ristrutturazione si tradurrebbe soprattutto in una tassa sulle banche che potrebbe mettere a repentaglio la stabilità finanziaria. E poi anche perché se si dovesse effettuare una ristrutturazione nell’ambito di un aiuto europeo, la sua legittimazione sarebbe resa difficile dal fatto che il nostro debito è strutturalmente alto. Non siamo la Spagna, che prima della crisi aveva poco debito. Da noi, l’elevato indebitamento è il frutto di decenni di politiche sbagliate. Nel panorama della crisi, la posizione dell’Italia è diversa perché siamo entrati nella crisi già deboli. Tuttavia, ripeto, bisogna che l’Europa si dia strumenti realistici per affrontare la pesante eredità del debito senza strozzare le possibilità di ripresa».
Cosa deve succedere, secondo lei, per scongiurare una via d’uscita così traumatica?
«Se non riparte la crescita, con un’inflazione così bassa e un Prodotto interno lordo che viaggia intorno a quota zero, l’Italia è veramente a rischio sostenibilità».
Non pare tuttavia che i mercati vedano così nere le prospettive dell’Italia.
«I mercati sono convinti che, dopo la presa di posizione del governatore Mario Draghi, la Bce farà qualsiasi cosa per salvare l’euro. Uno scenario di questo tipo, però, non è stato ancora testato. Ha eliminato per ora il rischio estremo ma se ci dovesse essere un’altra fase acuta di speculazione, non è chiaro come potrebbe reagire la Bce. E a rendere tranquilla la situazione è anche una progressiva rinazionalizzazione del debito. Cioè una situazione in cui le banche e i risparmiatori nazionali comprano il loro debito pubblico».
E non è una scelta positiva?
«È una mossa che gli economisti chiamano “repressione finanziaria”. Ha calmato i mercati, perché dà l’idea che il debito potrà essere rifinanziato, ma ingessa completamente l’economia. Il prezzo della repressione finanziaria è una bassa crescita. Se si trovasse la soluzione per abbattere una parte del debito, si ridarebbe linfa alla crescita».
La ristrutturazione, però, danneggerebbe anche i risparmiatori.
«Certamente. Sarebbe una tassa. D’altro canto qualsiasi creditore deve considerare il rischio che si è preso acquistando un bond. È un giusto principio di mercato, ogni forma di investimento comporta un rischio. È fuorviante inculcare l’idea che investire in Bot o Btp sia del tutto sicuro. Naturalmente le regole per un ristrutturazione dovrebbero essere chiare ex-ante, e questo è il problema. La ristrutturazione nell’eurozona viene addirittura esclusa come possibilità, il che induce a comportamenti distorsivi o, quando non si è potuta evitare come in Grecia e a Cipro, a misure caotiche e dolorose per i cittadini. Per questo vanno affrontati due problemi. Cosa fare del debito esistente e quali regole darsi per il lungo periodo. Per l’esistente ci sono proposte, come ad esempio quelle del consiglio di esperti tedeschi, che prevedono che una parte del debito ereditato dal passato sia perdonato. Sulle regole per il futuro c’è una vasta letteratura. Per me, è un tema centrale per la sostenibilità dell’euro».