Edoardo Vigno, Sette 30/05/2014, 30 maggio 2014
«PER CAPIRE LA RIVOLUZIONE SONO DIVENTATA ROBESPIERRE»
[Intervista a Hilary Mantel] –
«Dall’estate dei 10 anni, quando la mia vita è cambiata completamente: se dovessi mai scrivere un “romanzo storico” su di me, la prima pagina sarebbe quella. Il mio turning point». Il suo punto di svolta. E Hilary Mantel, a 61 anni regina mondiale di questo genere letterario, con la voce emozionata, si lascia andare a raccontare quel momento che ha sempre difeso in uno scrigno di riservatezza. «Mia madre lasciò mio padre per un altro uomo. Noi figli andammo con lei, in un’altra città, con un altro cognome. Mio padre lavorava in una fabbrica tessile, l’uomo con cui mia madre ha avviato una nuova relazione era un ingegnere, un uomo acculturato, giovane e ambizioso. Prima abitavamo in quelle vecchie e fredde case del Nord dell’Inghilterra, vicino Manchester: due camere sopra, due camere sotto, niente acqua corrente, e nessuno nella mia famiglia con un’educazione superiore; da famiglia operaia “salimmo” a middle class, in un’abitazione con giardino. Da quell’istante, non ho mai più visto neanche mio padre. E non sono mai più tornata indietro, anche se ripenso spesso, come tutti, a cosa sarebbe potuto essere di me».
Perché i turning point fanno la vita. Come i molti che disseminano le scelte dei protagonisti del suo romanzo storico in uscita per Fazi, La storia segreta della Rivoluzione: Maximilien de Robespierre, Camille Desmoulins e Georges-Jacques Danton, grandi rivoluzionari la cui esistenza è raccontata “dall’interno”, come lo era stata quella di Thomas Cromwell, Enrico VIII e Anna Bolena, i personaggi reali che hanno acceso i primi due libri di una trilogia («Al terzo sto lavorando, ci vorrà un anno») che le sono valsi due Booker Prize, i più prestigiosi premi letterari britannici, e la “nomina” fra i 100 personaggi del 2013 più influenti del pianeta secondo Time: «Ho cercato di vedere il mondo con i loro pregiudizi e le loro opinioni, come se neanch’io sapessi come sarebbe andata a finire la Storia».
Qual è la difficoltà maggiore, nello scrivere un libro di questo tipo?
«Io non amo inventare. Mi piace costruire storie su fatti reali. I problemi nascono quando le prove documentarie finiscono! Scavi e scavi, pensi di poter trovare una risposta a ogni domanda, ma arrivi a un certo punto in cui capisci che non l’avrai mai dalla realtà. E allora? Provi a indovinare, scegliendo fra le ipotesi più probabili. Ma per me è sempre sconfortante capire che non sapremo mai com’è andata davvero e che si deve “inventare”. Spesso mi fermo a lungo, esitante, prima di “saltare nel vuoto”».
È successo, con la Rivoluzione Francese?
«Questo è stato il mio primo romanzo. Quando l’ho cominciato avevo 22 anni: ero così naïve a pensare che, scavando, alla fine sarei arrivata a una verità storica! Ricordo che, sei mesi dopo aver cominciato a lavorare, mi sono trovata a dover descrivere un certo momento della storia di Robespierre, Desmoulins e Danton di cui non esisteva nessuna prova. Così, per tutto il giorno, scrissi ricreando i loro eventi personali. Fu così piacevole, e per me fu la svolta. In quel giorno sono diventata una scrittrice vera, e me ne resi conto. Da allora mi sono concessa di comporre un po’ più liberamente».
Sesso, potere, denaro… scrivendo di Storia, e dall’interno delle storie degli umani, qual è, secondo lei, il motore principale?
«Impossibile separarli. Il sesso tende a essere un aspetto del potere. E il denaro… Che cos’è la politica se non la raccolta e la scelta dell’uso delle risorse, che siano finanze o gas? Ciò che più m’interessa, però, è il punto in cui la politica incrocia la psicologia personale. È lì che vedi chi è nato ribelle e chi conservatore, e come si comportano».
Nel 1789, una spinta forte dei personaggi è data anche dagli ideali. Più di oggi...
«È vero, quella Rivoluzione è stata opera di un’élite culturale, le cui teste furono plasmate dalle idee del loro tempo. Erano idee vietate, oggetto di censura, e i loro sostenitori si ribellavano in nome della libertà di pensiero e di parola. Ma in un romanzo non puoi far dibattere i personaggi per pagine e pagine. Troppo noioso. Devi mostrare i pensieri tradotti in azioni, rendere la loro vita intellettuale concreta: anche i lettori più sofisticati vogliono leggere degli elementi umani dei protagonisti della Storia».
Quanto tempo serve per costruire un romanzo storico?
«Tre o 4 anni, in genere. Wolf Hall me ne ha richiesti 5, Anna Bolena 9 mesi, visto che era basato sulla preparazione del primo. Per la Rivoluzione ci ho messo 6-7 anni».
Come ci si prepara?
«Ho letto moltissime biografie. Ma, soprattutto, vado alle fonti. Ascolto le musiche e vado a vedere i dipinti dell’epoca, visito i luoghi e le rovine delle case dove i miei personaggi sono vissuti: il cour du commerce St-André sulla Rive Gauche dove viveva Danton, la Rive Droite di Robespierre. M’impregno della loro atmosfera. Prendo un’enorme quantità di appunti per ogni situazione: io non scrivo in sequenza, ma le scene man mano che mi ispirano. Poi trovo l’ordine».
Alla fine, quanto è reale e quanto fiction?
«Non distorco mai i fatti. Molti scrittori inventano i protagonisti all’interno di una cornice storica: io, se metto due persone a parlare in una stanza, magari non so di preciso se e dove quel dialogo s’è svolto, ma ho la certezza storica che potevano essere in quel luogo in quel momento. E uso spesso documenti, lettere e dichiarazioni, così che l’epoca parli con la sua stessa voce».
L’aderenza storica non le ha però impedito di affermare: “Non sono imparziale”.
«Uno scrittore sceglie i suoi protagonisti. E lo fa indirizzandosi su quelli da cui è attratto. Ma il fatto che ti possano piacere non significa che li giudichi. La prima domanda che mi faccio è: posso vivere “con” loro per tutto il tempo necessario a scrivere? A quel punto, cerchi di entrare nella loro testa. Speri che la storia che racconti, per quanto li riguarda, sia basata sulla migliore verità storica possibile. Non si tratta, però, di una cosa neutrale, ogni racconto emerge dalla persona che stai raccontando. Ecco in che senso il mio narrare non è oggettivo. Ma l’importante è non giudicare, neppure i personaggi più vili».
Perché questa “sospensione”?
«Dobbiamo sempre ricordare che noi conosciamo la Storia. Sappiamo a posteriori che un certo comportamento è stato un errore, o peggio. Ma quando vivi la Storia accanto a loro, mentre questa si sviluppa, non puoi conoscere le conseguenze. Cerco di far sì che i lettori camminino con i rivoluzionari verso il futuro, dimenticando che conosciamo l’esito finale. La sfida è far pensare a chi legge: se fossi in loro, adesso cosa farei?».
Difficile paragonare passato e presente: ma c’è un legame tra la Rivoluzione di allora e quelle di oggi?
«La Storia non ripete mai se stessa, ma guardare attraverso lo specchio della Storia ci dà molte informazioni, e si può usare la rivoluzione come uno schema per le future rivoluzioni. Ciò che è vero è che, sotto la pressione degli eventi, certi personaggi reagiscono in modo simile: in genere, i pragmatici distruggono gli idealisti, ma qualche volta avviene il contrario, come hanno fatto Robespierre e Danton. Robespierre previde che il rischio, per una rivoluzione, fosse il passaggio a una dittatura e la fine della democrazia. Dittatura, censura, repressione sono il percorso della fine delle rivoluzioni del passato, e lo sarà anche in futuro. Guardi chi si ribella oggi, nel mondo arabo: giovani uomini intelligenti e insoddisfatti, a cui il loro mondo nega ogni opportunità e potere, che vogliono accelerare la vita, cacciare il vecchio. Per fermare il loro malcontento, bisognerebbe dare loro denaro, potere, lavoro. L’Arabia Saudita sa come si fa, e lì la rivolta non c’è».
Se dovesse pensare di scrivere un romanzo storico tra 100 anni, chi pensa che sceglierebbe come protagonista?
«Margaret Thatcher. Detesto la sua figura, ma sono affascinata da quella che è stata la prima donna premier dell’Inghilterra».