Danilo Taino, Sette 30/05/2014, 30 maggio 2014
L’INDIA DI NEHRU SI È SPENTA COME UNA CERTO CANFORA
Per il momento del suo passaggio dalla vita alla Storia – circostanza che si realizzò il 27 maggio 1964 – Jawaharlal Nehru volle che parte delle sue ceneri fossero sparse nel Gange, «un simbolo e una memoria del passato dell’India che entra nel presente e fluisce nel grande oceano del futuro». Cinquant’anni dopo quel lutto, lo scorso 18 maggio, il grande fiume al cuore della Nazione indù è stato preso in consegna da Narendra Modi, politico agli antipodi di Nehru, diverso, ideologicamente opposto. Il trionfatore delle elezioni indiane terminate tre settimane fa, per ringraziare della vittoria, ha scelto Varanasi, città santa sulla riva del Ganga, come lo chiamano i locali: una aarti, cerimonia sui gaht che scendono fino all’acqua, ceri di canfora bruciati, preghiere; al termine, la promessa di Modi di ripulire il fiume inquinato che sostiene la vita e le anime di milioni.
Se i simboli dicono qualcosa, il “passaggio di proprietà morale” del Gange racconta la fine dell’era forgiata dal padre dell’India democratica, l’esaurimento dell’eredità di Nehru cristallizzata nel potere decennale del partito del Congresso e della sua famiglia. E disvela un Paese nuovo che si presenta al mondo con una frattura, o forse con un balzo verso la modernità.
Ci sono momenti, nella storia, in cui la democrazia diventa un ciclone che cambia i paesaggi. È la meraviglia travolgente che ha vissuto l’India nelle elezioni appena terminate. Dalla mattina alla sera, un’epoca si è spenta come un cero di canfora: è stata gloriosa, probabilmente la più impressionante epopea della decolonizzazione; e drammatica. Il pandit Nehru, maestro, è stato il gigante, il grande statista, l’architetto di un Novecento fenomenale e di una Nazione. Che la fase storica e politica da lui forgiata finisse era inevitabile: il suo lascito di profondo democratico e di laico, in un Paese poverissimo, diversissimo e sovrappopolato resta però una radice dell’albero che è l’India e un modello per il resto del mondo. Se il nazionalista Modi può prendere il potere senza sollevare veri timori per la democrazia, è perché Nehru l’ha costruita solida, capace di affrontare anche i cambiamenti più radicali.
Il rapporto col Mahatma. Subito dopo il 1947, anno dell’indipendenza dalla Gran Bretagna, il subcontinente indiano era un’entità politica senza forma, percorsa da tensioni etniche violentissime, povera, divisa, da unificare. L’India era eccitata per la vittoria sul gigante coloniale britannico. Ma la sfida era costruire una Nazione partendo dalla sola volontà. Il Mahatma Gandhi era stato la guida spirituale e il leader della lunga lotta per l’indipendenza, ma nel gennaio 1948 veniva assassinato; Nehru era stato il suo collaboratore più stretto, spesso critico, stratega politico più acuto; l’Indian National Congress – il Congresso – era il loro partito, pilastro della lotta anticolonialista, nato a Bombay nel 1885. Nehru fu scelto dal Congresso e divenne il primo Prime Minister dell’India indipendente il 15 agosto del 1947, mentre Londra avviava la Partition, con la quale l’ex impero divideva il subcontinente in due dominion, India e Pakistan: in un’orgia di scontri e di eccidi tra indù e musulmani. Era improbabile che da lì nascesse una democrazia. Se è successo, il pandit Nehru è colui che ne ebbe il merito maggiore.
Eletto dal popolo per tre volte. Era nato nel 1889 ad Allahabad da una famiglia colta e privilegiata. Suo padre Motilal era un ricco avvocato, un campione della lotta per l’indipendenza. Il giovane Jawaharlal andò a studiare in Inghilterra – Trinity College di Cambridge – diventò avvocato egli stesso, ma presto si dedicò totalmente alla politica, al Congresso e alla lotta di liberazione. Con profonde convinzioni democratiche, maturate in Inghilterra: è su queste basi che disegnerà poi le istituzioni del Paese e le riempirà di comportamenti coerenti; soprattutto, è partendo da esse che instillerà negli indiani l’idea che la democrazia è parte dell’eccezionalità e dell’unicità del loro Paese, un valore indiano. Per Nehru, laico senza remore, la democrazia è la vera divinità: la divinità consegnata a un popolo che lo elesse tre volte e lo tenne alla guida del governo fino a quel 27 maggio 1964. Da primo ministro, una volta, si lamentò della lentezza del sistema giudiziario. Il magistrato capo dell’Alta Corte di Bombay, M. C. Chagla, gli rispose che se voleva più velocità poteva governare per decreto e abolire il sistema giudiziario. Nehru si scusò, fece autocritica.
Con il Mahatma Gandhi aveva lo stesso obiettivo, l’indipendenza, ma le loro visioni divergevano. Lo venerava, lo vedeva «come un flash di luce che illumina le nostre menti e scalda i nostri cuori». Ma oltre alle divergenze su alcune scelte politiche, Nehru, a differenza di Gandhi, voleva che in India la scienza prendesse il sopravvento sulla spiritualità, che l’industria si affermasse e che le condizioni di vita del popolo migliorassero. Cresciuto su modelli occidentali, liberale in politica e socialista in economia, agnostico, era lontano, nel modo di vivere e nel pensare l’azione pubblica, dall’ascetismo orientale del Mahatma. Ma collaborarono senza incertezze e vinsero la battaglia dell’indipendenza. Si completavano a vicenda e Gandhi lo nominò suo erede politico.
La dedizione di Nehru all’India era totale. E la sua attrazione per l’Occidente fortissima. Due tensioni che spiegano la bella, difficile relazione con Edwina Mountbatten, la moglie dell’ultimo viceré britannico dell’India. Relazione stretta ma platonica, secondo la figlia di lei, Pamela, quasi platonica secondo qualche storico. Edwina, contessa di Mountbatten of Burma, arrivò a Delhi pochi mesi prima dell’indipendenza, al fianco del marito, plenipotenziario incaricato da Londra di gestire l’uscita del Regno Unito dal subcontinente. Rimasero fino al 1950, Lord Mountbatten con la carica di primo dei due governatori-generali dell’India. Quel breve periodo fu sufficiente a lei per innamorarsi del Paese, per impegnarsi strenuamente negli aiuti alle popolazioni travolte dagli scontri tra indù e musulmani e per lasciarsi catturare dal fascino del leader indiano. E in Nehru, vedovo, quei giorni fecero germogliare l’innamoramento per quella che era stata una delle bellezze più ricercate (e ricche) di Londra, maritata a un parente stretto della famiglia reale contro la quale Jawaharlal aveva dedicato la vita. Una relazione che durò 13 anni, fino alla morte di Edwina nel 1960, e che racconta del carattere di Nehru: una dedizione profonda alla donna che ammirava e lo turbava, ma mai un passo che potesse compromettere gli interessi del suo Paese.
Le tre questioni lasciate in sospeso. Di errori il pandit Nehru ne fece parecchi. Gestì male la questione del Kashmir, regione contesa con il Pakistan, e internazionalizzò la questione lasciando che finisse alle Nazioni Unite, col che ne perse il controllo. Nei confronti della Cina ebbe un approccio idealistico, e quando Pechino passò alle vie di fatto e la guerra scoppiò, nel 1962, formalmente su dispute himalayane di confine, fu colto di sorpresa, impreparato. E, viste oggi, nei giorni del cambiamento imposto da Narendra Modi, ci sono tre grandi questioni lasciate da Nehru in eredità politica che rimangono centrali in India, oggetto di critiche e rilevanti nella svolta elettorale dei giorni scorsi.
Innanzitutto, la dinastia. Alla sua morte, il potere passò ad alcune figure del Congresso, ma poi, nel 1966, fu la figlia Indira – sposata con Feroze Gandhi (nessuna parentela con il Mahatma) – a vincere le elezioni: rimase al potere fino al 1977, dopo avere imposto due anni di sospensione delle garanzie democratiche; tornata primo ministro nel 1980 fu assassinata nel 1984. Il posto fu preso dal figlio, Rajiv Gandhi, sempre per via democratica, che lo tenne fino al 1989 (fu ucciso nel 1991). Negli anni successivi, il potere nel Congresso passò a Sonia, moglie di Rajiv: portò il partito a vincere le elezioni del 2004 e del 2009. La corona avrebbe dovuto passare a suo figlio, Rahul, se avesse vinto le elezioni appena concluse. Il Congresso ha però registrato la peggiore sconfitta di sempre: 44 seggi in parlamento su 543, un tracollo che mette a repentaglio il ruolo stesso del partito nella democrazia indiana. E che fa dire a un gran numero di commentatori che siamo alla fine dell’epoca della dinastia politica dei Nehru-Gandhi. Probabilmente è così.
Ma era un’idea di dinastia ciò che l’architetto dell’India moderna aveva lasciato? Tra l’altro una dinastia che con Indira arrivò a sospendere per due anni la democrazia? Di recente, sua nipote, la scrittrice Nayantara Sahgal, ha sostenuto che no, Nehru non aveva mai indicato in sua figlia l’erede politica, che «la dinastia fu iniziata da Indira Gandhi». Come che sia, la questione del nepotismo e dello strapotere della prima famiglia d’India ha giocato un ruolo nelle elezioni di quest’anno e ha aiutato non poco Modi, il figlio di un venditore di tè, a presentarsi come un politico connesso al popolo, contrapposto al “principino” Rahul.
L’economia di piano. Seconda questione, la politica economica. Nehru era di idee socialiste e aveva di fronte il problema di industrializzare un Paese agricolo arretrato, con una popolazione poverissima che si moltiplicava. Negli Anni Cinquanta, scelse il modello sovietico, l’economia di piano. Visto oggi, fu un errore che l’India iniziò a correggere solo negli Anni Novanta e che ancora pesa: non solo esiste, per esempio, una commissione pianificatrice, che forse Modi abolirà, ma il sistema dei permessi, delle iper-regolamentazioni, dei sussidi, delle ingerenze di Stato nel business rimane ed è un disincentivo a investire nel Paese. Le politiche economiche di Nehru furono influenzate dai suoi tempi, dal desiderio di portare l’India fuori dalla stagnazione economica degli anni del British Raj, il governo britannico del subcontinente. Un dirigismo che negli anni del suo governo sviluppò pezzi di economia moderna e ruppe vecchi rapporti di potere. Ma poi, nel tempo, è diventato una palla al piede. Anche questa parte di eredità, rimasta al fondo delle politiche piuttosto dirigiste e assistenzialiste del Congresso, è stata un elemento, forse il principale, della vittoria elettorale di Modi; il quale oggi, nel momento della svolta, promette efficienza e apertura dell’economia. E sono state la prima ragione della sconfitta storica del Congresso. Anch’esse, probabilmente soprattutto esse, finiranno nella soffitta delle politiche che hanno segnato l’epoca di Nehru.
Né con gli Usa né con l’Urss. Il terzo lascito che ancora oggi influenza l’India riguarda la politica estera. Nehru è stato uno dei grandi uomini di Stato che hanno dato vita e idee al movimento dei Paesi Non Allineati, assieme all’egiziano Nasser, all’indonesiano Sukarno, allo jugoslavo Tito: non dalla parte di Washington, non dalla parte di Mosca, quando il mondo era bipolare. Una collocazione nella sua concezione probabilmente chiara, anche se la perfetta equidistanza era difficile da realizzare. La tendenza indiana verso il modello economico sovietico, però, sviluppò nella mente diplomatica dell’Occidente, soprattutto degli Stati Uniti, un sospetto di partigianeria pro-Urss da parte di Delhi, sospetto che rimase per tutti gli anni della Guerra fredda e ancora oggi non è dissolto. Non è detto che, con Modi, nazionalista e molto assertivo nella difesa degli interessi indiani, questa parte dell’eredità di Nehru, radicata nella diplomazia e nella politica indiane, non rimanga. Si vedrà.
Cinquant’anni dopo, ciò che certamente rimane è l’energia di quella democrazia che una delle figure politiche più monumentali del Novecento ha costruito pezzo per pezzo. Il Congresso dovrà ricominciare da zero. La dinastia Nehru-Gandhi forse uscirà dalla scena politica. Ma quelle ceneri, ormai, fanno parte nell’anima del Ganga, il grande fiume su cui oggi naviga e prega il nazionalista Modi: sono la forza travolgente di un Paese che sa cambiare. Una storia indiana da imparare.