Antonio D’Orrico, Sette 30/05/2014, 30 maggio 2014
VI RACCONTO 93 MODI DI ESSERE ITALIANI
Questi Ritratti italiani, caro Alberto Arbasino, sono 93 incontri con scrittori, registi, attrici, cantanti, storici dell’arte, architetti, capitalisti, monarchi, ecc., in ordine alfabetico (dalla A di Agnelli alla Z di Zeri), sembrano l’elenco telefonico di un pezzo della storia nazionale ultima scorsa.
«Ma non sono intercettazioni telefoniche. Erano colloqui e dialoghi vis-à-vis e dal vivo».
Sembrano anche delle sedute spiritiche. La spia è la frase in cui lei dice: «Avevo degli amici, quegli amici sono diventati delle edizioni complete, dei centri di studi, dei comitati, dei convegni, e io mi sento molto solo».
«È vero, purtroppo. Sono un superstite che si sente privo dei suoi coetanei. Se penso che avevano pochi anni di più, Calvino, Parise, Pasolini e Testori, e non ci son più. Ci eravamo ripromessi di fare alla fine dei grandi litigi e li pregustavamo. Ma non c’è stato il tempo».
Cominciamo da Gianni Agnelli. Lei chiarisce per sempre da dove veniva il suo stile, la sua leggendaria sprezzatura, veniva dall’aver frequentato la scuola di cavalleria.
«A Pinerolo, scuola di cavalleria e scuola di guerra. Il suo era un grande stile che tutti gli altri parenti non avevano. Ce l’aveva lui (e Marella). Negli altri parenti non si è vista mai una sprezzatura simile alla sua».
La sprezzatura (“atteggiamento di voluta e ostentata negligenza”, dice il vocabolario) significa saper essere seri nelle cose leggere ed essere lievi nelle cose gravi. Questo mi pare il motivo conduttore del libro. È un libro sullo stile.
«Non ci avevo pensato ma è vero. Perché la sprezzatura ha significato sempre quello: di essere lievi nelle cose pesanti e invece magari puntigliosi nelle stupidaggini».
L’altro segreto di Agnelli fu il suo precettore, Franco Antonicelli, raffinato intellettuale che era di Voghera come lei.
«A Voghera c’erano i fratelli e le sorelle di Antonicelli. C’era Amalia, detta la Bidone perché era grassa, tonda, ma anche perché era la moglie del ragionier Bidone. E poi c’era il fratello Sandro, il medico, che veniva tutti i giorni, per anni e anni, a prendere la pressione a mia nonna. Zoppicava un po’ il dottor Antonicelli. Mi ricordo anche che Amalia, la Bidone, spiegava a mia madre: “Sai ci sono dei négligée che non è che li tieni sempre ma se ti arriva un uomo in stanza all’improvviso te li infili”. E la mia mamma le domandava: “Ma quando può capitare che a una signora le arriva uno sconosciuto o anche una persona nota in stanza?”».
Però – la cito – Agnelli che aveva tanta attenzione per lo stile (i polsini, le cravatte), non ne aveva nessuna per i particolari delle 124, delle 850, le automobili che produceva.
«Una cosa incomprensibile. Badava così tanto ai polsini, ai gemelli, aveva il gusto per il dettaglio personalizzato e non badava per niente ai dettagli delle sue automobili».
Perché?
«Perché la Fiat era in una posizione monopolistica e quindi per gli italiani doveva andar bene così».
Obbedisco. Passiamo al regista Michelangelo Antonioni, il maestro dell’Incomunicabilità (concetto sinceramente da rimpiangere con tutta questa comunicazione che c’è oggi). Era davvero un rompiballe che se usciva un articolo non benevolo su di lui scriveva lettere di protesta ai direttori?
«Si lamentava moltissimo e aveva quei tic, brutti anche. Bell’uomo ma con questi tic che lo devastavano. Era un noioso che si arrabbiava. Permaloso, direi. La cosa curiosa è che poi quando l’ho incontrato in Cina, sul set del film che stava girando, fu amichevolissimo».
Con Antonioni lei introduce due categorie fondamentali: la Cultura e la Pseudo-Cultura. Antonioni, ahilui, apparteneva alla seconda categoria?
«Certi dettagli dei suoi film fanno pensare a una certa Pseudo-Cultura. Basti pensare a come ha usato Monica Vitti, la sua musa. La Vitti era bravissima nelle parti comiche. Antonioni, invece, la voleva pensosa. Il fatto di volere una Vitti pensosa, profondamente rammaricata, è un sintomo certo di Pseudo-Cultura».
Personalmente non mi è mai piaciuta, anche come comica.
«Io l’ho sempre trovata bravissima».
Come comica?
«No, in tutto. Era bravissima perché aveva una faccia straordinaria, bellissima».
Ho sempre detestato anche Giulietta Masina.
«In anni remoti, addirittura prima della guerra, alla radio c’erano Cico e Pallina, che erano Federico Fellini e Giulietta Masina. Facevano una trasmissione che era un miagolio continuo: “Cico. Pallina. Pallina. Cico”. Insopportabile. Di Fellini ho ricordi tristi del suo finale. Terribile. Me lo ricordo fiacco, fuori di sé per la mancanza di lavoro. Si alzava presto, passava all’apertura della Libreria Feltrinelli al Babuino, chiacchierava con le commesse, poi girava attorno alla Piazza del Popolo, si sedeva a un tavolino del Canova, attaccava bottone con tutti. I nostri rapporti non erano più buoni da quando avevo declinato di partecipare al suo infelice Satyricon. Anche per non ripetere la brutta esperienza di gregario subita dal povero Ennio Flaiano».
Fellini era Pseudo-Cultura?
«Ha fatto almeno due bellissimi film: La dolce vita e 8?».
Lei scrive che la Pseudo-Cultura è «delegata a trattare coi giornalisti, coi tenutari di rubriche letterarie». Ora io non commetterò l’errore di Antonioni arrabbiandomi. Anzi, guardi, con una vaga sprezzatura, sottoscrivo la sua affermazione. Mi ci riconosco in pieno.
«Perfetto».
C’è una vera ammirazione (e commozione) nelle pagine dedicate a Ennio Flaiano da tutti ormai considerato solo un battutista.
«E, invece, non era solo questo. Era un grande scrittore. La sua bellissima prosa bianca, spoglia, il sense of humour pronto e l’amarezza fondamentale così peculiari nel nostro più profondo Sud. A Parigi stavamo nello stesso albergo che era il vecchio Pont-Royal, dove si spendeva anche poco, e si usciva la sera, si andava a mangiare assieme. Fellini sfruttò molto Flaiano e non gli riconobbe quello che gli doveva».
Facciamo un po’ di gioco delle coppie come si addice ai rotocalchi. Prendiamo Roberto Longhi e Anna Banti, il grande critico dell’arte e la scrittrice. Lei, che ha sempre saputo cogliere e rendere il rovescio dei personaggi, ritrae Longhi mentre canterella i ritornelli di Mina sentiti in televisione.
«E lasciava sbigottiti i suoi assistenti più seriosi».
Cantava Mina e, nello stesso tempo, era il detentore di una delle prose più alte nella storia letteraria nazionale (il più grande stilista del Novecento italiano, insieme a Gadda). Mi parla un po’ della scrittura di Longhi?
«Longhi dava l’impressione di buttare i termini lì a caso, invece era tutto studiatissimo. Longhi scriveva come uno che si veste al buio ma ha un guardaroba talmente bello da non sbagliare mai un accostamento. Longhi era straordinario e non era sempre ben capito da Anna Banti. Quest’ultima aveva finito per assumere un po’ il ruolo della direttrice scolastica (governava la rivista Paragone per la serie letteraria). Quell’immagine didattica le ha nuociuto, la cancellava come romanziera. La vendicò, una volta, l’altro grande storico d’arte, Bernard Berenson (lui e Longhi erano nel loro campo come Coppi e Bartali). Durante un dinner di riconciliazione, dopo decenni di risentimenti, il perfido Berenson chiese a Longhi cosa si provava a essere sposati a un genio come la Banti».
Se dovessi assegnare dei premi Oscar in questo filmone che è Ritratti italiani, quello per il personaggio femminile andrebbe sicuramente a Elsa de Giorgi, l’attrice che ebbe una tempestosa relazione sentimentale con Italo Calvino (l’ultimo tra gli scrittori italiani del periodo che ti aspetteresti di veder coinvolto in una appassionantissima storia d’amore). Lei racconta dello stranissimo rapporto che c’era tra Carlo Emilio Gadda e Elsa de Giorgi.
«Gadda la temeva perché Elsa de Giorgi, in compagnia dei suoi due cani, Florindo e Rosaura, lo portava in una sala da tè a un primo piano. Lì, dice Gadda, i due cani si accoppiavano sconciamente tra i tavolini e lui pensava che la de Giorgis (la chiamava così) lo faceva per suggerirgli chissà quali idee, per trasmettergli chissà quale messaggio... Ma è un’infamia che non siano state pubblicate le lettere d’amore tra la de Giorgi e Calvino».
Sarebbe uno dei grandi libri del Novecento italiano.
«Davvero. Ma la moglie di Calvino non ha mai voluto. Peccato. Chi ha letto l’epistolario dice che è bellissimo».
Senta, lei ha l’abilità di accennare interi romanzi in poche righe. In questo libro accade, tra l’altro, quando nomina Rosanna Tofanelli, una ragazza «bella, sfortunata e sempre rimpianta». Chi era?
«Era la figlia maggiore di Arturo, il direttore di Tempo Illustrato. Lei e sua sorella erano ospiti di Curzio Malaparte, al Forte, nella famosa villa Hildebrand proprio davanti alla Capannina. Ma alle due ragazze era vietato mettervi piede. Con Rosanna facevamo dei giri in Lambretta. Lei doveva rientrare entro le nove di sera o giù di lì».
Perché sfortunata e sempre rimpianta?
«Rosanna sposò, ahimè, Mino Guerrini, il pittore, che poi l’ha condotta alla disperazione per cui si è ammazzata. Una storia tragica».
Era molto bella?
«Ah, era bellissima».
A proposito (magari un po’ a sproposito) di bellezza, lei scrive che la parola “bello” dà sempre più fastidio perché alla Letteratura si addossano secondi fini politici, propagandistici e assistenziali.
«Non basta più dire che un romanzo è bello. Ora i romanzi devono essere equo solidali ed ecosostenibili».
Nel libro ci sono molte pagine e molto ispirate dedicate a Giangiacomo Feltrinelli. Al suo funerale in particolare.
«Ne ho ancora un ricordo vivissimo, eravamo al Monumentale davanti a quella tomba di famiglia babilonese. C’erano dei giovani in eskimo a pugno teso che non lo avevano mai conosciuto e gridavano ritmicamente: “Compagno Feltrinelli, sarai vendicato”. Presero la parola diversi oratori. Mentre parla Maria Antonietta Macciocchi, il gruppo in eskimo si passa la voce: “È la Cederna! Sentiamo la Cederna!”. Per dovere di cronaca, dico: “Non è Camilla Cederna, è la Macciocchi”. Allora gli eskimesi mi circondano, per poco non le prendo. “È la Cederna!” mi gridano in faccia. Poi prende la parola Klaus Wagenbach, editore di tutte le neoavanguardie. E lì, il solito gruppo: “Parla Del Bo! sentiamo Del Bo!”. E io, non resistendo: “È Wagenbach, e infatti sta parlando in tedesco, perché non sa l’italiano; perché mai Giuseppe Del Bo, a Milano, dovrebbe parlare in tedesco?”. Ma vengo di nuovo minacciato come se fossi un provocatore: “Lo sappiamo noi, che è Del Bo!”. A quel punto son dovuto fuggire. Non si sa mai, qualche arma impropria. Questa storia l’ho raccontata dopo ad Hans Magnus Enzensberger. E lui mi ha detto: “Perché? Non ti eri accorto che l’Illuminismo è finito?”».
Questo sketch, mi permetta di definirlo così, sembra un requiem degli Anni Settanta come potrebbe immaginarlo Nanni Moretti. E mi sembra l’esempio perfetto di quello che si diceva all’inizio: essere leggeri nella gravità. È proprio la leggerezza (che qui sconfina in pura comicità) a fare capire quanto fossero gravi, serie le condizioni in cui versava l’Italia in quegli anni. Ho sempre pensato che lei, Arbasino, è stato un grande scrittore politico. E lo dimostrano anche le cose scritte alla voce “Aldo Moro” in questo libro. Lei dice che quella tragedia riconferma i dati tipici dell’antropologia nazionale: «L’aggressività sistematica di tutti contro tutti, i guelfi e i ghibellini…».
«Il fatto che ritroviamo guelfi e ghibellini anche oggi (destra e sinistra) dà la sensazione che alcuni caratteri degli italiani sono etnici, non sono corsi e ricorsi storici, ma caratteri fissi».
A proposito delle morti di Pasolini e di Feltrinelli, lei osserva che il presepio è troppo scontato, che ci sono tutti gli elementi della vulgata dei due personaggi: i ragazzi di vita e la borgata all’Idroscalo per Pasolini, Feltrinelli vestito alla guerrigliera sotto il traliccio di Segrate. Lei scrive che questi due presepi sono stati apparecchiati, che sono stati allestiti secondo i luoghi comuni (si dice) fioriti attorno ai due personaggi. È così?
«Non lo so. Non so più cosa dire. I presepi sono effettivamente apparecchiati, però non si sa cosa pensare. E se pensiamo a una cosa, non possiamo provarla. Questa è la situazione in cui ci troviamo».
Facciamo un po’ di gossip. Le faccio un quiz: chi si buttò in mare a Bocca di Magra da una barca minore per venir raccolta da un’altra barca più giusta e qui le cominciò una storia che andò poi benissimo?
«Non lo dirò mai».
No, dai, me lo dica.
«Non lo voglio dire perché vive ancora».
Si buttò apposta?
«E certo che si buttò apposta. Per essere presa a bordo dello yacht più importante».
Non rispondendo al mio quiz non mi permette di dimostrare un’altra mia tesi, che lei è stato anche il più grande cronista mondano che abbiamo avuto in Italia. Ma passiamo a quest’altra meravigliosa scena: Luchino Visconti, Rina Morelli e Paolo Stoppa che fanno un sit-in (probabilmente il primo nella storia nazionale) davanti al Quirinale per protestare contro il divieto di mettere in scena L’Arialda a Milano. E lei, Arbasino, è lì a testimoniare questo evento storico.
«Ero lì in Lambretta. Andavo e venivo. Stoppa e la Morelli dicevano: “Ma, insomma, noi siamo una primaria compagnia. Che vergogna!”. Si erano portati i thermos e i plaid. Una cosa seria».
Chi era il presidente della Repubblica?
«Gronchi».
E non li ricevette?
«Non fece niente, li lasciò lì».
Lei scrive che, prima, l’omosessualità era una commedia, era vissuta da chi la praticava con i toni della commedia, poi con l’avvento di Pasolini e Testori è diventata una tragedia, un racconto doloristico, un martirio cristiano.
«Era una commedia e per capirlo basta rievocare i racconti di Palazzeschi, pieni di umorismo e di leggerezza. Non c’era il tormentone. Il mondo gay oggi si è chiuso in chi è gay e chi non è gay. Prima uno poteva essere gay o non gay a seconda dei momenti e della giornata, poteva essere una cosa o l’altra e basta, buonanotte. Prima non si era mai schierati, uno non faceva il movimentista della propria sessualità».
A proposito di eros, lei scrive che l’italiano è una lingua impossibile per scrivere di erotismo e di pornografia.
«Come si fa a scrivere una frase come: “E l’energumeno estrasse un membro gigantesco?”. Come si fa a scrivere “estrasse” in pornografia? Fa parte di quel linguaggio burocratico e fatiscente con parole come “inanellare”, “obliterare”, “aeromobile”».
Vorrei dare l’Oscar per la battuta più bella che c’è nel libro. È quella in cui lei, pensando al suo periodo on the road (l’epoca di Fratelli d’Italia) quando correva in macchina su e giù per la Penisola, si chiede: «Dal momento che l’oggetto del desiderio più tenuto in mano di giorno e di notte non è “un membro gigantesco” ma il volante della Porsche, volendo proprio un “coming out” con sincerità impietosa, dovrò dichiararmi Porschista?».
«Eh, non più. Una volta potevo dichiararmi Porschista. Ma poi, dopo che ho avuto l’incidente, le mie automobili sono state tutte e solo Mercedes».