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 2014  maggio 30 Venerdì calendario

«IL MIO METODO MONCLER»

[Intervista a Remo Ruffini] –

A sentir lui il metodo Ruffini è, tutto sommato, elementare: «Faccio poche cose e cerco di farle bene». In realtà dietro Remo Ruffini, l’imprenditore-direttore creativo di Moncler, nato a Como 53 anni fa, c’è il metodo (specializzarsi nei piumini da quello tecno-vintage a quello da sera, la linea Gamme Rouge), ma c’è anche la visione, il sapere dove voler andare.
Prendiamo un caffè nel quartier generale di Moncler, a Milano. Moncler si è quotata in Borsa relativamente da poco e ha chiuso il primo trimestre 2014 con ricavi pari a 145,4 milioni di euro, in crescita del 16 per cento a tassi di cambi correnti. Per essere precisi, la performance registra una crescita a doppia cifra in tutti i mercati internazionali, tranne in Italia, dove il dato è leggermente negativo (- 4 per cento).
Soddisfatto?
«Certo, ma quel che mi rende fiducioso per il futuro è sapere che abbiamo tanti progetti e che li stiamo già portando avanti. Quanto alla Borsa, seguo il consiglio che mi ha dato Marco Debenedetti quando ci siamo quotati: Non controllare ogni giorno cosa sta facendo il tuo titolo. Non guardarlo a mercato aperto. Il solo modo per sopravvivere nel mondo finanziario è non cambiare strategia soltanto perche’il titolo va su o va giù».
Si parlava del metodo Ruffini:
«È sempre lo stesso: fare poche cose e farle bene. Quando ho cominciato Moncler era una piccola azienda di origini francesi: la sua storia mi aveva affascinato. Ho detto: facciamo poco, facciamolo bene e facciamolo noi. Significa non prendere agenti per vendere in Russia, non avere partner per entrare nel mercato cinese. Ci vuole più tempo, certo. In Russia, in Cina costruiamo piccoli uffici e procediamo a piccoli passi. Partivo da un assunto: noi non facciamo moda, facciamo un prodotto di lusso che dura nel tempo. Per far passare questo concetto devi contare sul feedback del consumatore, ma ce l’hai solo se i negozi sono tuoi. Ogni giorno tasto il polso dei miei mercati: conosco i direttori delle varie flagship o i capi area, li ho assunti io, con loro abbiamo creato la strategia di vendita a Tokyo o a Pechino».
Quindi il metodo Ruffini è un elogio della lentezza.
«Siamo andati piano. Se avessimo voluto correre avremmo fatto dei franchising. E poi c’è un grandissimo conflitto d’interesse tra chi vuole semplicemente vendere vestiti e chi vuole trasmettere il senso di un’azienda seria. Se vuoi essere percepito come un’azienda unica, non devi accettare compromessi».
Compromessi di che genere?
«Volevano che facessi le giacche, le camicie. Ho detto no. Oppure: non siamo ancora in Russia perché non abbiamo voluto aprire in partnership. Lo sbarco ci sarà ora, a giugno».
Com’è essere imprenditore nell’Italia 2.0? Il tasso di chiusura di piccole e medie imprese è allarmante, la stessa Confindustria continua a segnalarlo.
«Essere imprenditore è bello. Ho iniziato nel 2003 e la svolta è arrivata tra il 2009 e il 2013 gli anni bui dell’Italia. Produciamo piumini, abbiamo una stagionalità forte. Commercialmente dobbiamo essere internazionale ma la fabbrica è in Veneto perché l’Italia è il Paese che coltiva la grande cultura del prodotto. E poi siamo rimasti pochi in Europa a trattare la piuma d’oca. Credo così di essere riuscito a creare valore anche in questi anni difficili, in cui il sistema Italia si è percepito poco e male. Nonostante tutto siamo riusciti ad esportare il 75% della produzione».
Domenica scorsa si è votato per le Europee. Da imprenditore, qual è la sua percezione di Europa?
«L’Europa non è una nazione. Siamo tanti popoli diversi. Io per esempio adoro la mentalità tedesca: sono esigenti ma fedeli. Ma se parli con loro e poi con gli spagnoli ricavi feedback, punti di vista, totalmente lontani».
In Italia tutti aspettando una ripresa dei consumi ormai depressa da anni. Lei ci crede?
«Il consumatore di oggi è il viaggiatore. Milano va bene per questo, perché ha un flusso di acquirenti asiatici e russi. Certo, andava meglio prima: l’euro è ingiustificatamente troppo forte e i giapponesi, per dire, viaggiano meno. Per fortuna vendiamo a casa loro».
Un errore che non rifarebbe?
«Ho studiato poco. Ho fatto ragioneria, a fatica. Non aver studiato è stato sicuramente un limite. Ho dovuto prepararmi su tutto da autodidatta, ma capire un bilancio da solo è una fatica che se avessi fatto la Bocconi mi sarei evitato».
Lei però è figlio d’arte, suo padre era nel settore abbigliamento negli Stati Uniti e sua madre a Como.
«Sì, e ho potuto approfittare della loro esperienza, ma quando ho iniziato, l’ho fatto da solo. Le prime persone che ho assunto non erano manager, erano ragazzi come. Mi sono, come si dice, fatto sul campo, il che mi ha consentito di maturare un’esperienza ma è stato anche un grandissimo limite. Sono arrivato a fare 80 miliardi di fatturato ma era tutto complicato per il fatto che non avevo studiato economia. Avrei faticato meno e forse avrei fatto anche meglio».
Tutti aspettano con ansia la ripresa. Lei cosa ne pensa?
«Io dico che se non lavori non fai. L’Italia è come un’azienda con un debito fuori controllo, non puoi alzare i listini (le tasse), devi rivalutare i tuoi prodotti, attrarre nuovi investitori. Certo, la burocrazia deve aiutare e non mettere i bastoni tra le ruote. E poi, capisco i problemi delle banche ma è il cane che si morde la coda. Se il mio negoziante non ha soldi per pagarmi, chiude il negozio. Eppure basterebbe fare sinergia: ogni media città italiana potrebbe diventare meta di turisti che a loro volta sono tutti potenziali consumatori del lusso made in Italy».
A proposito di made in Italy: piano piano sarà tutto acquistato dai grandi gruppi francesi?
«Penso di no. Guardi Prada, è un marchio indipendente che va meglio di molti brand francesi. E sa perché? Perché c’è chiarezza di strategia. Bertelli ha cominciato ad andar bene quando si è concentrato sul marchio Prada».
Il futuro dei suoi figli sarà con lei in azienda?
«Se entreranno qui dovranno portare un contributo. Non è automatico e comunque prima devono fare esperienze altrove. Il piccolo studia economia in Inghilterra, il grande è da Bain, ha 24 anni, lavora 14 ore al giorno, anche nel week end, cosa che se fosse in Moncler non farebbe. A parte che qui 14 ore al giorno non le lavora nessuno».