Sergio Bocconi, Corriere della Sera 30/05/2014, 30 maggio 2014
PUBLIC UTILITIES E (MENO) FINANZA PIAZZA AFFARI LEGATA DA 117 «PATTI»
Gli accordi che ancora resistono e quelli che vanno in pensione L’ultimo patto di sindacato sottoscritto in ordine di tempo riguarda il 9% di Montepaschi e vede protagonisti la Fondazione senese e gli investitori esteri Fintech advisory e Btg Pactual. Con la sua approvazione dalle authority (Consob e Bankitalia) diventa l’accordo parasociale numero 117 di Piazza Affari. Ma dall’elenco è anche destinato a uscire in tempi brevi quello che, attraverso Telco, ha garantito il controllo su Telecom Italia con il 22%: verrà sciolto e il principale socio del gruppo di telecomunicazioni sarà la spagnola Telefonica con il 15%.
L’Italia dei patti resta dunque forte, considerati sia il numero di quelli in vigore sia il fatto che sono oltre 40 le società quotate governate da questo tipo di assetto proprietario. Però dall’elenco completo e dalle recenti vicende relative a patti anche «storici» emerge con evidenza che sono in corso grandi e irreversibili cambiamenti nel peso e nella geografia di queste intese fra azionisti.
Cambiamenti che i soli numeri potrebbero non manifestare. Basti pensare che nel 1998 le società in Piazza Affari controllate da sindacati erano 28, numero che nel 2010 è quasi raddoppiato per poi scendere a quota 44 (su 244 imprese in listino) a fine 2013. Nel 1990 i patti comunicati al mercato (l’obbligo risale al ‘93) «blindavano» il 6,4% dell’intera capitalizzazione della Borsa, nel 2013 questo peso è pari al 15,1%, cioè è al «massimo storico».
Eppure, proprio dall’anno scorso per il modello di controllo attraverso il patto di sindacato è cominciato un declino che appare irreversibile: la spinta a sciogliere la foresta degli accordi e delle partecipazioni incrociate o non «core», arrivata dalla Mediobanca guidata da Alberto Nagel e dalle Generali con alla testa Mario Greco, ha prodotto una svolta «epocale» che ha già coinvolto alcune società e che porterà in breve Telecom a essere una sorta di public company. Ma è una svolta che a ben guardare non coinvolge l’intera mappa degli accordi bensì riguarda in primo luogo lo storico network dei patti che risalgono in sostanza alla logica del «nocciolo duro» di soci stabili riferibile a Enrico Cuccia. È quindi, riferita al nostro capitalismo tradizionalmente di relazione, ancora più radicale e destinata a produrre effetti di sistema.
Per il resto numerosi accordi parasociali rimangono pienamente in vigore. Su può però notare una certa evoluzione anche in questi patti. In diversi casi sono relativi a utilities che hanno azionisti principali pubblici e che sono stati talvolta sottoscritti in occasione di fusioni che hanno riguardato realtà locali altrimenti troppo piccole e fragili. Si tratta di accordi talvolta «dominati» dalla politica e che in non rari casi risentono delle relative litigiosità (un esempio di queste ore è il patto in Sat, aeroporto di Pisa, alle prese con l’Opa di Corporation America). In altri casi si tratta invece di patti «familiari», in società dunque controllate da un numero molto limitato di azionisti legati fra loro da vincoli di parentela.
Diversi accordi sono poi più che altro strumenti per regolare rapporti fra azionisti che hanno in realtà una natura più che altro industriale. Non si tratta più cioè di vincolare partecipazioni finanziarie allo scopo di costituire una coalizione di potere, cioè di controllo su una o più società, magari con impegni di reciprocità. Scopi e natura di tale tipo di accordi sono dunque più limitati e fisiologici rispetto all’attività svolta dalle imprese interessate.
Resta comunque il fatto che buona parte degli oltre 100 patti in Piazza Affari garantiscono assetti proprietari stabili. Un modello ancora «renano» che certo prevale in Italia (e in Europa) sulla public company di tipo anglosassone. Gli esperti di corporate governance si dividono ma, in generale, sono in molti a sostenere che non esiste un modello di governo societario migliore in assoluto. Appare tuttavia sempre più evidente che gli investitori istituzionali, che spesso aderiscono a logiche anglosassoni, siano più favorevolmente orientati a investire in società che presentano maggior capitale libero. Ciò sembra destinato ad avere un’influenza crescente anche nel nostro capitalismo. Perciò non è difficile prevedere che comunque la «carica» dei 117 patti perderà gradualmente vigore. Anche grazie alle privatizzazioni che potranno coinvolgere le utilities.