Andrea Scanzi, Il Fatto Quotidiano 30/5/2014, 30 maggio 2014
TIKITAKA, IL “PROCESSO” HA UN (IRONICO) EREDE
Volevamo un nome che colpisse, accattivante e un po’ fuori contesto, tipo Ballarò. Per questo abbiamo scelto Tikitaka. All’inizio non mi convinceva fino in fondo e c’è ancora chi non ha imparato a pronunciarlo, lo chiamano ‘Tic Tac’ e robe simili. Però è andata bene”. Pierluigi Pardo, il padrone di casa di Tikitaka, racconta così il suo progetto. “Torneremo la prossima stagione? Credo e spero di sì”. Ogni lunedì sera, in seconda serata su Italia 1, Tikitaka è stato una sorta di Processo del Lunedì 2.0, meno urlato e più giovanile. Inizialmente provato alla domenica sera (con nome diverso) e poi spostato nella sua collocazione naturale, è andato – in autunno – otto volte di fila in seconda cifra come share. Il record ha coinciso con il 12.62% del 4 novembre 2013. “Risultati in cui nessuno credeva. Certo, non c’era ancora la controprogrammazione della primavera e potevamo sfruttare il traino di Colorado”. Nella seconda parte, il calo. “Inevitabile. In quella fascia è arrivato il Grande Fratello ed è esplosa la politica. Se però penso che durante l’ultima puntata abbiamo comunque fatto il 5.6%, pur avendo contro Grillo da Vespa e la semifinale del Grande Fratello, mi dico che abbiamo sempre tenuto”.
La media del programma è stata dell’8,1 di share. Critiche sostanzialmente positive e “personaggi che, settimana dopo settimana, si proponevano da soli per venire ospiti da noi. Attori, giornalisti, cantanti, scrittori”. Secondo Pardo, la forza è stato dimostrare che “tutti possono parlare di calcio. Lo definirei un programma post-ideologico e democratico, in cui persone di sensibilità diverse si sono confrontate. La sera dell’insediamento del governo Renzi al Senato, eravamo gli unici ad avere Pigi Battista, Mughini e Mario Giordano che dissertavano non di politica, ma dell’arbitraggio di Juventus-Torino”. Tikitaka è stata una centrifuga in cui si passava con velocità spericolata dalle prodezze erotiche di Wanda Nara al dramma di Scampia.
“Di gossip parlano anche i grandi quotidiani e credo molto nell’alternanza di alto e basso. Vado fiero dei servizi su Scampia come pure sulla Sardegna post-alluvione. Ma vado fiero anche di Cassano che canta Pupo. Mi piace la contaminazione e credo che puoi trovare strade nuove solo se esci dalla liturgia classica. Magari qualcuno non gradirà e farà polemica, ma la direzione è quella”. A Tikitaka vigeva “il bipartisianesimo. Una filosofia a cui tenevo e che ha subito condiviso anche Brachino, il primo a volere il programma. Mi piaceva l’idea di ospitare personaggi lontanissimi tra loro e farli parlare di un argomento che solitamente non trattano. Penso per esempio a Padellaro che si confronta con Menichini, non su Renzi ma sulla Roma”. Tikitaka, finito più volte anche nei trending topics di Twitter, ha inseguito un linguaggio nuovo applicato alla narrazione calcistica. A volte l’ha trovato e altre volte no. Ha dato il meglio di sé quando, alla polemica trita da bar sport, ha anteposto (nella maggior parte dei casi) il cazzeggio autoironico e la regola aurea di non prendersi troppo sul serio. Alcune interviste, come quella a Tevez, hanno mostrato il volto inedito della persona e non dell’icona. Mediaset non sembra averci creduto troppo, quantomeno all’inizio. I risultati, al netto di sbavature e migliorie, lasciano però ipotizzare il bis nella prossima stagione.
Andrea Scanzi, Il Fatto Quotidiano 30/5/2014