Maurizio Crosetti, la Repubblica 30/5/2014, 30 maggio 2014
L’ORA DI SCHNELLINGER PROTAGONISTA PER CASO DELLA NOTTE ALL’AZTECA DIVENUTA LEGGENDA
[Messico 1970] –
Carletto, come lo chiamava il paròn Rocco, oppure Kalle, come lo chiamava sua mamma, o magari Volkswagen, come lo chiamavano i tifosi del Milan, il 17 giugno 1970 stava camminando lungo quel sottilissimo sentiero che divide la banalità dalla leggenda. Perché se Karl Heinz Schnellinger non avesse incongruamente deciso di spingersi in attacco, lui terzinaccio sinistro, al minuto 92 di Italia-Germania 1-0 (ve la sareste forse ricordata nei secoli dei secoli, una partita chiamata “Italia-Germania 1-0”?), addio epopea del quattro a tre, addio memorie, lungometraggi, racconti, opere teatrali, commemorazioni. Addio pareggio e tempi supplementari, perché il gol del pari lo segnò proprio lui, il meno epico, il più necessario.
«Stavo solo avvicinandomi al tunnel degli spogliatoi, proprio dietro la porta di Albertosi »: Schnellinger lo avrebbe confessato a uno sbigottito Facchetti. Dunque, voleva uscire dal campo e invece segnò. A volte, la leggenda ha l’ingresso sul retro.
Carletto aveva trentun anni, quel giorno, e giocava nel Milan. In rossonero avrebbe disputato, in tutto, 220 partite: con zero gol. In nazionale, 74: con un gol solo, quello. Cross di Grabowski dalla sinistra, Schnellinger entra in spaccata e la mette dentro. Rosato gli dirà: «Carlo, ma proprio adesso? » (altra versione: «Tedesco di merda»). Rivera gli dirà: «Ti aspetto in Italia». Lui, negli anni a venire, si sarebbe limitato a rispondere: «Stavo solo facendo il mio mestiere».
E invece no, perché il mestiere di Volkswagen era evitarli, i gol, mica segnarli. Grosso come una sequoia, costruì pezzo dopo pezzo, in officina, una carriera niente male: scudetto col Milan, Coppa dei Campioni, Coppa Intercontinentale, quattro Coppe Italia (una, con la Roma). Operaio specializzato dell’area di rigore, la propria, si prese una sola volta nella vita la licenza di visitare quella altrui, diventando strumento nelle mani del destino. Sono capaci tutti, dopo, a diventare Muller o Riva, se prima è stato uno Schnellinger qualunque a spalancare la porta dell’impossibile. I veri eroi portano sulle spalle una piuma.
Se il tedesco meno estroso di tutti non si fosse spinto laggiù, nelle terre incognite, Italia-Germania all’Azteca l’avrebbe decisa Roberto Boninsegna dopo appena otto minuti, gli azzurri sarebbero arrivati in finale meno stanchi, meno scarichi di adrenalina (il citì Valcareggi si disse sempre sicuro che, ad armi pari in quanto a energia, il Brasile non ce ne avrebbe mai segnati quattro), e forse avrebbero addirittura visto da vicino la Coppa Rimet: vincerla no, non esageriamo, quello era forse il miglior Brasile di tutti i tempi.
Ma ci saremmo privati della Partita: quella che si porta nel cuore in eterno, persino più delle vittorie mondiali, più di Pablito Rossi contro i tedeschi nell’82 e ovviamente molto più di Materazzi contro i francesi e quel testone di Zidane, nel 2006. Perché “Italiagermania quattroatre” ci corre nel sangue come la prova che tutto è possibile, e che niente conta più di un’emozione. Naturalmente non è vero, come non poteva essere vero Carletto Volkswagen che segna un gol.
Maurizio Crosetti, la Repubblica 30/5/2014