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 2014  maggio 30 Venerdì calendario

L’EUROPA SENTE PUZZA DI GAS

Mentre a Donetsk si spara, nelle cancellerie si firma. Vladimir Putin annuncia il varo dell’Unione Euroasiatica con Bielorussia e Kazakhstan e il neo­presidente ucraino Petro Poroshenko promette di siglare il trattato di associazione alla Ue subito dopo l’insediamento. Le autorità della Ue, in mancanza di meglio, si scambiano documenti sull’Agenzia comunitaria per gli acquisti energetici, proposta dalla Polonia per accrescere il potere contrattuale verso i fornitori, e intanto fanno le prove per capire se e quanto i nostri fornelli soffrirebbero se la disputa tra Russia e Ucraina portasse a un blocco dei gasdotti.
Le firme (non sarebbe male mettere nel conto anche il discorso di Obama a West Point sulla politica di sicurezza nazionale degli Usa) dimostrano che gli spari sono la parte più crudele ma anche più effimera di una battaglia che si combatte in Ucraina ma ha per posta gli assetti globali dei prossimi decenni.
Sulla questione aleggia la retorica delle opposte propagande. Vladimir Putin ha fama di cinico e freddo calcolatore, salvo trovarsi cucita addosso la divisa del sognatore che immagina il ritorno dell’Unione Sovietica. Lo Zar, però, ha ben altro a cui pensare. Nel terzo mandato presidenziale si è trovato di fronte gli stessi problemi dei primi due: difficoltà ad attrarre investimenti diretti dall’estero e una riconversione dell’economia che procede a strappi, laddove pure procede. Fino al 2008, con i prezzi di gas e petrolio ai massimi, la crescita era garantita. Ma la crisi ha colpito duro, più duro che altrove, e l’incremento del Pil, stabile oltre il 7% nel decennio 1998-208 , è precipitato a un flebile 2%.
Per cui l’Unione Euroasiatica, più che il mezzo per resuscitare un’Urss di cui importa solo ai veterani della Grande Guerra Patriottica, è la strada per consolidare l’accesso a mercati emergenti.
Bielorussia e Kazakhstan formano per la Russia, da soli, il terzo mercato mondiale dopo Europa e Cina, con un interscambio commerciale che in tre anni è cresciuto del 50%.
Dando per acquisite Georgia e Armenia, e per acquisibili Kirgizistan e Tagikistan, si capisce quanto bruci al Cremlino aver perso l’Ucraina, tassello decisivo sul fronte Ovest. Il buon Putin, per parte sua, si gioca la retorica di potenza sul fronte interno (’Il crollo dell’Urss è stata una disgrazia storica’, ama ripetere) per non ammettere che la realtà dice l’opposto: la Russia, oggi, conta nel mondo se gioca di sponda. I casi di Iran e Siria lo dimostrano. Con i rischi del caso, naturalmente. Il primo è che il bullo del quartiere se ne accorga e intervenga, proprio come hanno fatto gli Usa in Ucraina nel 2004 (Rivoluzione Arancione) e adesso, per scombinarti tutto. Il secondo è che ti tocchi metterti in affari con tipi più forti e robusti di te, per esempio la Cina, sperando che tutto vada bene. La propaganda si è molto esercitata sul recente accordo tra Putin e Xi Jinping e sull’accordo da 400 miliardi di dollari per una fornitura trentennale di gas russo alla Cina, riducendolo a una chimera (bisognerà costruire il gasdotto, partirà solo fra qualche anno…) o a una resa di Mosca all’espansionismo di Pechino. Ma i dividendi delle strategie energetiche si raccolgono anche in politica. Ecco qualche esempio: nelle pieghe dell’accordo sul gas c’è il patto per triplicare l’esportazione di petrolio verso la Cina di Rosneft, il colosso diretto da Igor Sechin (vecchio collaboratore di Putin fin dai tempi dei servizi segreti) che ha consistenti partecipazioni anche nelle nostre Saras e Pirelli. Così la Russia arriverà allo stesso livello dell’Arabia Saudita (un milione di barili al giorno), fedele alleato degli Usa, nei contratti petroliferi con la Cina. Altro esempio: il patto energetico con Pechino offre al Cremlino la possibilità di accedere ai fondi quasi illimitati della Banca cinese per lo sviluppo, un colosso che nel 2011 aveva erogato prestiti per 210 miliardi di dollari. Il primo banco di prova sarà proprio il completamento del gasdotto dell’Altai per cui transiterà il gas pattuito nel recente accordo.
Lo sanno bene i politici europei e le autorità della Ue che, da quando Putin e Xi Jinping si sono stretti la mano a Mosca, hanno improvvisamente cambiato registro, anche se il gas ’cinese’ dovrebbe uscire da giacimenti diversi da quelli che ora producono quello europeo.
Nessuno parla più di sanzioni. La Merkel? Tace. La Ashton? Sparita. José Barroso, presidente della Commissione Europea, tenta la mozione degli affetti: «Siamo sicuri che Mosca terrà fede ai patti».
Guenther Ottinger, commissario europeo al’Energia, dice che «dobbiamo evitare di cadere vittime di ricatti politici e commerciali», aggiungendo però che la questione della Crimea deve restar fuori dai negoziati perché «li sovraccaricherebbe troppo». Se fosse un fumetto, nel palloncino si leggerebbe: «Ma chi ce l’ha fatto fare?». Perché gli europei oggi si rendono conto di due cose. La prima è che la sicurezza energetica dei nostri Paesi è esposta non solo alle decisioni del Cremlino ma anche a quelle di Kiev. In altre parole: la Russia potrebbe ridurre le forniture all’Europa per premere sull’Ucraina, ma anche l’Ucraina potrebbe bloccare o deviare il flusso per ’ricattare’ Mosca e ottenere prezzi migliori, come peraltro successe in piccola misura nel 2006 e 2009. La seconda è che dalla spaccatura tra Unione Europea e Russia apertasi con la crisi ucraina, solo uno trarrà profitto: gli Usa, che in un colpo solo avranno creato problemi all’una (rivale commerciale) e all’altra (rivale politica).
Al netto di tutte le sciocchezze che si sono sentite in queste settimane (tipo: arriverà lo shale gas dagli Usa…), la realtà è che Russia ed Europa sono legate a filo doppio. La Russia ci vende il 40% del gas che consumiamo, ma i nostri euro generano l’80% dei profitti di Gazprom, l’azienda di Stato russa. Un blocco totale dei gasdotti in inverno toccherebbe tutta l’Europa, un blocco parziale soprattutto l’Europa dell’Est e i Balcani, con ’buchi’ rispetto alla domanda tra 20 e 40% in Polonia, Romania, Croazia, Serbia e Grecia e dell’80% in Finlandia, Lettonia ed Estonia. Ma una riduzione tanto drastica degli incassi creerebbe problemi enormi al bilancio della Federazione russa, che si regge grazie all’export di gas e petrolio.
Europa e Russia, insomma, non possono litigare neanche volendo. Di questo passo l’Ucraina si troverà tra breve nella scomoda posizione del cerca guai, dell’invitato che imbarazza gli altri commensali. Anche perché le sue attuali richieste, certo motivate dallo sprofondo del bilancio statale che Petro Poroshenko eredita da Viktor Yanukovich, hanno una scarsa base logica e poche possibilità di essere accolte in caso di arbitrato internazionale. Quando Yanukovich, nel dicembre 2013, decise di voltare le spalle alla Ue ed entrare nell’Unione Euroasiatica offerta da Putin, il Cremlino gli ridusse di un terzo il prezzo del gas, facendolo scendere a 268,5 dollari per mille metri cubi. Nell’accordo, però, era prevista una revisione trimestrale delle condizioni. E poiché in quel periodo Yanukovich, caro a Putin, fu cacciato, Gazprom, ovvero il Cremlino, pensò bene di riportare il prezzo del gas per l’Ucraina a 385,5 dollari, cioè a livelli da Europa occidentale (382).
Ora l’Ucraina che ha cacciato Yanukovich chiede di pagare le tariffe ottenute da Yanukovich. E lo chiede al Paese che intanto accusa di ogni nefandezza. Difficile che ce la faccia. Ancor più difficile che riesca o voglia pagare 1,66 miliardi di dollari entro lunedì prossimo, come la Russia chiede a saldo di una prima tranche del debito che, sempre secondo Mosca, ammonta a 5,2 miliardi di dollari. Urge, come si vede, una trattativa. Quel dialogo a tre, Ucraina-Ue-Russia, che era l’unica soluzione ragionevole anche quando i politici europei andavano a Kiev a godersi i bagni di folla di piazza Maidan. Ma tra un rimpianto e l’altro, a Donetsk si spara e nelle cancellerie si firma.