Silvia Bizio, la Repubblica 29/5/2014, 29 maggio 2014
LA FAMIGLIA DI MUCCINO
LOS ANGELES
«Questo film mi ha ridato la vita», esordisce Gabriele Muccino sul set del suo nuovo film, Fathers and daughters, a Pittsburgh, in Pennsylvania. È il suo quarto film americano dopo La ricerca della felicità, Sette anime e Quello che so sull’amore . Cast di divi internazionali: Russell Crowe, Amanda Seyfried, Jane Fonda, Diane Kruger, Octavia Spencer, Aaron Paul e Quvenzhane Wallis, la giovanissima candidata all’Oscar 2013 per Re delle terre selvagge . E c’è una bambina di sette anni, Kylie Rogers, che sicuramente farà parlare di sé.
«Giro in totale indipendenza, con attori straordinari, una storia bellissima. Se qualcuno alla fine avrà sbagliato, sarò stato solo io» continua Muccino. «È bello riscoprire la passione, trovarsi in un film in cui ti senti te stesso».
Muccino gira a Pittsburgh per via di un incentivo fiscale che da tempo la città offre ai cineasti: famosa per le sue acciaierie, sta diventando la “Hollywood dell’est”. Fathers and daughters è uno di quei copioni che da anni circolavano fra gli studios, apprezzati ma mai realizzati: è stato scritto dal drammaturgo Brad Desch, qui alla prima sceneggiatura. Muccino l’ha spuntata, insieme al produttore Craig Flores e alla sua compagnia Voltage, quella di Dallas Buyers Club.
Russell Crowe, a cui Muccino aveva subito pensato per il protagonista — il padre, un romanziere — sembrava un obiettivo impossibile, impegnato nelle riprese di Noah, poi in quelle del suo debutto alla regia, Gallipoli. E invece. «È forse il copione più bello che abbia mai letto» dice l’attore, «pieno di sfumature psicologiche, la visione di Muccino lo rende unico». Un film a budget relativamente basso per gli standard Usa, 16 milioni di dollari, raccolti con le prevendite in quasi tutti i paesi del mondo (tranne gli Usa) dopo la presentazione, a Cannes, di 15 minuti del film.
Fathers and daughters scorre su due piani, passato e presente. Crowe è uno scrittore che soffre di disturbi psichici dopo un incidente d’auto in cui, per colpa sua, la moglie ha perso la vita. Solo, con una figlia piccola (Kylie Rogers) e un romanzo fallito, viene ricoverato in un ospedale psichiatrico ed è costretto ad affidare la bimba alla zia materna (Diane Kruger). Quando sarà dimesso, dovrà combattere per riaverla. Amanda Seyfried è la figlia adulta, «in realtà mai cresciuta perché ha perso il suo riferimento, incapace di amare perché nessun uomo merita il sentimento che nutre per suo padre. Si parla della perdita di persone care ma con un linguaggio in cui tutti si possono identificare». Un film come questo «è un miracolo, a Hollywood gli studios non ne fanno più, si pensa solo al botteghino, devono piacere a tutti e si perde l’originalità. Film come Un uomo da marciapiede venivano prodotti dagli studios, oggi vince Godzilla. Salvo piccole eccezioni, penso a Harvey Weinstein con cui prima o poi spero di lavorare. A differenza dei due film con Will Smith, l’ultimo mi ha fatto davvero male, non potevo far nulla senza che un attore o un produttore avesse qualcosa da ridire ». Intanto Muccino si prepara al prossimo lavoro, racconto on the road di due romani negli Stati Uniti e del loro incontro con una coppia gay, realizzato da Indiana Production e con fondi europei. «È una storia, autobiografica al cento per cento, alla quale penso da 25 anni» spiega il regista, che girerà fra Roma, San Francisco, New York, New Orleans e il Messico.
All’ultima Mostra di Venezia, il regista aveva detto che «tra la fine degli anni Settanta e i primi del Duemila il “morettismo” ha rovinato l’estetica del cinema italiano, si facevano solo film girati e fotografati male». Oggi aggiunge: «Gli ultimi grandi narratori sono stati Leone, Bertolucci, Petri e Germi. Poi sono arrivati autori che rispetto e considero pionieri di una nuova forma di racconto, Virzì, Sorrentino, Garrone e pochi altri. Ma pian piano, se si inizierà a guardare di più all’estero, a vedere film in lingua originale per capire come gli altri registi dirigono e come gli attori recitano, la competitività aumenterà anche in Italia. Il successo di La grande bellezza dovrebbe dar fiducia invece il nostro è un paese rancoroso», continua Muccino, dispiaciuto per le reazioni in patria al film di Sorrentino: «Ho letto cose inesatte, segnali di ignoranza e arroganza. Per noi è stato importante vincere l’Oscar ma per definizione siamo autolesionisti. È un peccato che La grande bellezza non sia tornato in sala, il grande pubblico l’ha visto in tv ma non è un film da vedere mentre lavi i piatti o rispondi al telefono. È cinema puro.”
Silvia Bizio, la Repubblica 29/5/2014