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 2014  maggio 29 Giovedì calendario

IL MEDICO RILUTTANTE


I pazienti che bussano allo studio per chiedere l’esame consigliato la sera prima dalla trasmissione tv, gli avvocati pronti a far partire le denunce al minimo sospetto di errore, l’industria che propone nuove tecniche diagnostiche, sempre più complesse. E loro a scrivere: “risonanza al ginocchio”, “esame della tiroide”, “valutazione per intervento chirurgico ambulatoriale”, “antibiotico e integratore vitaminico”. Più penna che stetoscopio, più tempo alla scrivania che chinati sul lettino. Nel nostro paese sta nascendo la figura del medico riluttante. Che esita a fare la cara e vecchia diagnosi, basata su intuito e assunzione di responsabilità. Le preferisce l’invio a un altro specialista o la prescrizione di un esame o un farmaco in più. Sono gli stessi camici bianchi a denunciare il cambiamento e a cercare il modo di uscire dalla palude, generata principalmente da quella che viene definita “medicina difensiva”. Cioè dalla paura di prendersi una denuncia per colpa professionale. Quanto costi questo spreco di risorse, questo far girare a vuoto il sistema sanitario, non è ben chiaro. Ci sono solo stime e fanno impressione. Ogni anno in Italia i medici riluttanti farebbero buttare via 13 miliardi. Una cifra enorme che se recuperata anche solo in parte, permetterebbe di rilanciare la sanità del nostro Paese. La medicina difensiva è solo un pezzo di quella grande categoria di sperpero che va il brutto nome di “inappropriatezza” e non nasce soltanto quando le prestazioni inutili sono prescritte per paura ma anche quando sono dovute, ad esempio, a scarse capacità o carente aggiornamento.
Lo scorso week end la Società italiana di radiologia medica (sirm) ha tenuto il suo congresso annuale. Si è parlato anche di medicina difensiva e esami che non servono. L’Italia è uno dei Paesi dove si fanno più risonanze magnetiche: circa 9 milioni l’anno. Si ritiene che almeno la metà non servano. In tutto le prestazioni (anche tac, ecografie, radiografie) sono quasi 100 milioni. Come se ogni abitante facesse un accertamento diagnostico e mezzo ogni dodici mesi. Corrado Bibbolino è il segretario del sindacato nazionale dei radiologi, ed era al congresso. «Le denunce sono in aumento — spiega — In tanti campano su quello che facciamo noi, sul minimo errore». Un esempio di medicina difensiva? «Guardi, poco fa ho visto una donna dopo un esame al seno. C’era un piccolo dubbio riguardo a una formazione mammaria e io ho chiesto comunque di fare l’ago aspirato. Qualche anno fa le avrei proposto di ripassare tra sei mesi per ripetere l’accertamento. Ma oggi in giro per l’Italia ci sono società che fanno pubblicità su tutti i muri proponendo ai cittadini di assisterli nelle cause contro i medici». Il problema ha anche a che fare con le nuove generazioni. «Noi abbiamo più esperienza e sappiamo comunque destreggiarci tra minacce e richieste campate in aria dei pazienti — dice ancora Bibbolino — Loro invece tendono a prescrivere esami di controllo su esami di controllo. La parola d’ordine è “primo non prenderle”».
Sono circa 32mila le domande di risarcimento per colpa medica che arrivano alle assicurazioni ogni anno, il contenzioso è aumentato del 250% in 15 anni. «Al pronto soccorso capita di visitare persone per un banale malessere che quando sono pronte per tornare a casa ti chiedono: “Ma come dottore, non mi fa la tac?”». A parlare è Nicola Montano, professore associato di Medicina interna a Milano. «Alla base della medicina difensiva c’è una frattura dell’alleanza tra professionista e paziente. È successo intanto perché la medicina si è molto specializzata, poi perché ha sempre più commistioni con interessi economici importanti, ad esempio c’è l’industria che spinge per far crescere la spesa». Montano è tra quelli che stanno introducendo da noi i dettami del movimento statunitense “choosing wisely”, cioè scegliere saggiamente. Le varie società scientifiche italiane stanno individuando nel proprio campo le 5 prestazioni da ridurre in quanto troppo spesso sono inutili. I radiologi hanno indicato anche la risonanza del ginocchio e della colonna vertebrale, oltre alla lastra al torace prima dell’intervento chirurgico. Gli internisti ritengono che vada tagliato l’uso di cateteri e debba diminuire il tempo trascorso dai ricoverati nel letto. «Contro inappropriatezza e medicina difensiva bisogna muoversi su due livelli — spiega Montano — quello istituzionale riguarda chi gestisce la sanità pubblica e deve depenalizzare la colpa medica. Noi invece dobbiamo metterci insieme e decidere cosa davvero serve ai nostri pazienti». Anche chi usa il bisturi finisce spesso davanti al giudice. Cosa questo comporti lo spiega Gianluigi Melotti, direttore di dipartimento di chirurgia della Asl di Modena: «I miei colleghi sulla difensiva fanno una serie di indagini maggiori di quante ne prescriverebbero se non fossero così preoccupati di sbagliare. La politica deve intervenire perché ci sono assicurazioni che rifiutano di fare contratti ad alcuni medici. Finisce che chi è nel pubblico non accetta di operare un caso difficile, a rischio complicanze. Si preferisce mandarlo altrove». È un altro aspetto della medicina difensiva, che come spiega Maurizio Catino, professore di sociologia a Milano Bicocca e autore di uno studio su questo tema, «si manifesta anche quando il medico per ridurre l’esposizione al contenzioso evita i pazienti a rischio».
Ogni volta che sulla stampa, in tv e in generale sui mezzi di informazione si magnificano le doti di un certo farmaco, un certo macchinario o tecnica chirurgica, il primo professionista a venirlo a sapere è il medico di famiglia. D’altronde gli ambulatori di questi dottori sono il front office del sistema sanitario. «Tutti i giorni mi sento chiedere dagli assistiti accertamenti inutili, tutti i giorni sento lamentele perché rifiuto — spiega Vittorio Boscherini, medico di famiglia in Toscana e membro della segreteria nazionale Fimmg, il principale sindacato della categoria — Se la domenica sera la tv parla di una certa pratica medica, il lunedì mattina qualcuno me la chiede. Un esempio è l’esame del psa, di discussa efficacia per stimare il rischio di cancro alla prostata. I pazienti vengono a proporci di farlo ad ondate». Dopo oltre 30 anni di professione Boscherini ha tante storie da raccontare. «Ma un tempo non era così difficile. I sessantenni con un dolorino al ginocchio non chiedevano subito una risonanza, i malati non si lamentavano perché per un’influenza non gli prescrivevo l’antibiotico. Oggi ci sono ottantenni che entrano in studio e mi chiedono perché non possono avere rapporti sessuali. Una cosa impensabile una ventina d’anni fa. E poi nessuno ti minacciava di andare dall’avvocato, mentre oggi può capitare, malgrado il nostro rapporto con gli assistiti sia generalmente buono. Tutta questa pressione può spingere i colleghi, in particolare quelli più giovani, verso una iper prescrizione». E c’è da preoccuparsi per il futuro se nell’identikit del medico riluttante c’è un professionista di 30 o 40 anni.

Michele Bocci, la Repubblica 29/5/2014