Guido Ceronetti, la Repubblica 29/5/2014, 29 maggio 2014
NON CERCATE LA STORIA LEGGENDO LA BIBBIA
Un mio carissimo amico, Gino Girolomoni, perso pochi anni fa, creatore del marchio Alce Nero (oggi Coop), rifondatore di un antico monastero tra le Cesane di Urbino, adattato ad abitazione e agriturismo, ad ogni primavera, all’incirca nel mese di Aviv, andava nel Néghev di Israele, a vivere in tenda e a raccogliere cocci di anonimi insediamenti umani insieme alla missione archeologica di Emanuele Anati, italiana, e non so quanto ben vista dai colleghi israeliani. L’idea fissa di Anati, adottata con entusiasmo da Girolomoni, era che in quel luogo, detto Har Harkòm, fosse da collocare il cuore geografico e mistico della rivelazione biblica: il vero Sinai, la collina in cui Mosè parlava con Dio, da cui discese con le tavole della primitiva Legge, dove il popolo dell’Esodo accampato si faceva il fuoco per arrostire cavallette grosse come pagnottine. Per Gino e Anati il lavoro scientifico era il sostegno obbligato e la prova certa del racconto scritturale dell’Esodo.
Facendo vitaccia per qualche settimana nel deserto, col pensiero che in quei sassi, sabbie, reperti millenari c’era il ricordo di un contatto ineffabile tra uomo e divinità.
Non solo presentita, ma presente come autonominarsi di tutto ciò che è Essere (il Tetragramma del Sinai è una torsione impronunciabile del verbo essere stesso), Gino era felice. Accidenti, vi sembra poco? Io annuivo, non gli opponevo il mio scetticismo: lo sapevo, lo so a sazietà che fuori della pura illusione è inutile cercare la felicità, e quando soffiamo su un’illusione (nella scuola la sega elettrica antillusioni è al lavoro per tutto l’orario, e poi non lamentiamoci) reiteriamo un delitto. Tuttavia avrei voluto dirgli: è in te che Dio si nasconde, nelle pietraie del Néghev non lo troverai.
Spinoza, per amore dell’ arido vero ( meglio: per la sua caccia all’Essere fin nei costrutti grammaticali) subì la maledizione della Sinagoga, visse da reietto, un fanatico tentò di ucciderlo. Ma comincia da lui, a metà Seicento, il lungo, fatato, e a rischio di roghi, cammino della filologia biblica critica, una delle grandi avventure umane.
Ho camminato per una cinquantina d’anni lungo le vie segnate, come chiodi di alpinisti nelle pareti di roccia, da quei prodigiosi semitologi, che hanno decifrato il cuneiforme, rintracciato l’ugaritico, riparato infiniti errori testuali, scoperto fonti, liberato la Scrittura dai grovigli di scrupoli e trucchi massoretici — ma, di generazione in generazione, da un secolo all’altro, finirà che di parola sacra, di lingua profetante, non ne resterà più niente. Perché demolire sacro per risacralizzarlo nella verità è un conto: demolire per non lasciare che il deserto, un altro. E sul versante archeologico, a quanto pare, il deserto si è allargato molto. Il titolo, vistoso e illustrato, sulla Repubblica del 29 aprile scorso, mi ha fatto sussultare; diceva, categorico: “Da Gerico a Re Salomone la Bibbia smentita dagli archeologi israeliani”. Non c’è da goderne affatto.
La decostruzione veterotestamentaria, come la chiama Vanna Vannuccini, in realtà può essere fatta cominciare da Abramo, altro bel tipo di nomade, dalle lenticchie di Esaù, dalla capanna di Caino
e altri Har Harkòm Girolomoni ignoti a Wellhausen. A rigore, cancellando tutto, in base a quanto dice il prof. Herzog dell’Università Ebraica, neppure il nome Israele è legittimo. Il nome presuppone che sia vero o creduto vero lo scontro fisico violentissimo narrato nel trentaduesimo Genesi tra il nomade Giacobbe e uno Sconosciuto che si palesa essere ben più di un angelo, addirittura Dio stesso. Lo sconosciuto, dopo un Catch senza testimoni che dura una intera notte, dice all’intrepido antagonista: «Da oggi in poi ti chiamerai Israele!» e lo azzoppa con un colpo nel nervo sciatico. Sparito, non ricomparirà.
Israel significa “uno che lotta con Dio”, ed è la caratteristica eterna di Israele: la non rassegnazione, la polemica, il contrasto con la Divinità ignota, che lo rende zoppo tra le nazioni, forzato a essere diverso e maltollerato, fino e oltre la Shoàh, sempre. Israele, come realtà simbolica, è metareligioso e metastorico. La nostra, mi diceva il rabbino che mi impartiva ebraico, è una fede che nessuno capisce. E un filologo tedesco si domandava: come può, una parola così povera, che nega ogni cultura, produrre la più alta cultura? Mentre gli archeologi israeliani concludono con la negazione radicale della storia biblica, in specie dell’Esodo e del regno davidico (spero non tutti, a Gerusalemme, concordino col negazionismo dell’intervistato), la verità simbolica di quelle storie mute agli scavatori vola aldisopra di tutte le storie del mondo, marcando a fuoco la vicenda di Israele.
Se l’archeologo mi avverte, davanti al Muro Occidentale (celebre nelle nostre lingue come Muro del Pianto) che tutte quelle lacrime di mezzo mondo, preghiere, talismani non valgono un fico perché quel muraglione superstite, creduto avanzo del Secondo Tempio, su cui gettò la torcia incendiaria il legionario romano nel 70 e. v., non è che una pia ipotesi senza fondamento, certamente io caccio via il dotto come un tafano molesto. L’identità ebraica è un valore costruito da qualche millennio; l’identità israeliana, nata ebraica tra Vienna e Londra un po’ più di cento anni fa, salutata messianica nel giugno 1967, dalla guerra permanente è tenuta in vita: nella pace che tutti si augurano si perderebbe.
Guido Ceronetti, la Repubblica 29/5/2014