Malcom Pagani, Il Fatto Quotidiano 29/5/2014, 29 maggio 2014
“RECITO PER SENTIRMI UN PO’ MENO SOLA”
[L’attrice Sabrina Impacciatore] –
Sua madre le consigliava di scegliersi un mestiere vero: “Ogni mattina mi sbatteva sul muso le offerte di lavoro, sono cresciuta con l’odore della carta stampata sulla faccia”. Suo padre, direttore di una delle filiali sarde della Bosch, si era licenziato a 50 anni: “Assecondando un’anima idealista e fricchettona che dai viaggi lo faceva ritornare pieno di collane e paccottiglia”, ma per la figlia avrebbe voluto l’orario d’ufficio. Sabrina Impacciato-re, salita per la prima volta sul palco da bambina, è rimasta in bilico sulla realtà senza ascoltare la dissuasione familiare: “Ma li ringrazio, se non si fossero opposti ai miei sogni non avrei saputo quanto davvero li desiderassi”. Per interpretare Mimì la Petit, guida di una compagnia di ballerine in Pane e Burlesque, studiare “quella dea di grazia e femminilità che è Dita Von Teese”, trascinarsi a Monopoli per la commedia d’esordio di Manuela Tempesta: “Pur avendo due sole settimane per imparare il pugliese e il varietà” c’è voluta curiosità: “Il tema si distanziava dalle due camere e cucina di tanto cinema italiano e ho accettato. Nella creazione del personaggio, come solo i grandi costumisti sanno fare, mi ha aiutato molto Antonella Cannarozzi”.
Dopo aver recitato per Scola, Muccino, Mel Gibson, Veronesi e Virzì, l’insoddisfazione è simile agli inizi: “Non mi sento mai all’altezza, quando mi rivedo mi dispero” e l’ambizione, più di una promessa a bassa voce con se stessa “spero di rimanere con il cuore a stretto contatto con la creatività”. In campagna, da ragazzi, Sabrina inventava l’orizzonte: “Ci trasferimmo dal Prenestino a Fonte Meravigliosa, tutta l’adolescenza a pescare girini, catturare lucertole, suonare chitarre e pilotare go-kart”. In scena, senza limiti di velocità, non va poi troppo diversamente: “Recitare è una forma di salvezza, uno strumento per indagare miserie, grandezze e debolezze della vita, una missione che si può affrontare solo se si è malati di passione e se si pensa che si possa amplificare un sentimento e trasmetterlo per sentirti meno solo”. A volte, tra un passaggio di tempo: “In una precarietà di prospettive che è l’unica maniera che conosco per non abituarmi alla ripetitività” e un errore di valutazione: “Del resto non me ne frega assolutamente niente, ma quando un regista non racconta attraverso di me quel che potrebbe raccontare mi avvilisco” si fanno anche incontri straordinari: “Mel Gibson e Valerio Binasco, persone speciali che sanno stimolare le molte corde, quelle nascoste soprattutto, di un attore”.
Di Binasco e della sua prova in È stato così di Natalia Ginzurg, più degli elogi di Cordelli, Impacciatore ricorda “La continua epifania data dal confronto quotidiano”. Del regista che la volle in The Passion, la miracolosa generosità a un anno di distanza dalle riprese. “Mi arrivò una lettera, la aprii, dentro c’erano la gratitudine di Mel e un assegno con il doppio del mio ingaggio originario. Aveva redistribuito gli utili del film a 12 mesi di distanza. L’aveva fatto con tutti. Gibson è un artista puro. Un Pollock. Un bambino di sette anni che si rivolta nella terra e che si sporca del suo gioco. Mi piacerebbe vivere la professione come lui e ci provo”.
Nel delineare il territorio a cui non vuole appartenere, Sabrina parla di “fighettismo”. Affezione infantile di una commedia nazionale in crisi di idee: “Ci siamo dimenticati che veniamo da Germi e Risi”, di un problema di scrittura: “Ruotano per 30 film i soliti 4 sceneggiatori inariditi che a volte, per la vergogna della marchetta alimentare, evitano persino di firmare con i loro nomi” e imputa i balbettii di un genere solo in parte salvato dagli incassi di Zalone e dal plauso allo Smetto quando voglio di Sidney Sibilia: “Tutti bravissimi, ma senza offendere nessuno credo che si tratti di un punto di partenza e non di arrivo”, alla mancanza di coraggio . “Eravamo feroci. Siamo diventati di un buonismo irritante e abbiamo tradito Monicelli. A 90 anni, senza perdere nulla del suo genio, Mario era ancora cattivissimo”. Davanti all’iconografica brutalità di una città allo sbando, Impacciatore si è invece rifugiata tra le ombre di Testaccio: “Anche se nascono banche come piante e muoiono una a una tutte le vecchie botteghe artigiane, è un angolo di Roma che resiste strenuamente all’orrore. Ci sono luminarie accese e processioni in pieno giorno, vecchi che portano la sedia al parco e si mettono a parlare con gli affetti di una vita, cortili nascosti, un’atmosfera anni 50 che mi incanta” e aspetta ancora di sorprendersi come per magia: “Perché la mia visione del mondo mi è chiara, ma un po’ mi annoia proprio perché è mia”. Nelle pause, in un appartamento pieno di bacchette, colleziona illusionismi per i figli degli amici e a Natale costruisce un albero delle fate: “Lo tengo su fino ad agosto. L’ultima volta ho radunato 20 bambini e come colonna sonora, in sottofondo, ho lasciato spazio ad Edward mani di forbice”. Risultato: “Hanno pianto a dirotto tutti e venti”. Allora Sabrina si è nuovamente travestita e ha cambiato di segno alla tragedia: “Alla fine erano allegri. Per lo sforzo, io mi sono chiusa in casa per tre giorni”.
Malcom Pagani, Il Fatto Quotidiano 29/5/2014