l’Unità 29/5/2014, 29 maggio 2014
STUDENTI DIETRO ALLE SBARRE
Studenti dietro alle sbarre. Per portare il cinema dove abitualmente non arriva. Ma anche e soprattutto per compiere un percorso umano, «perché dietro ad ogni artista prima di tutto ci sono uomini e donne. Persone impegnate a cambiare il mondo col loro contributo di riflessione e civiltà». Da qui, infatti, è partito il laboratorio didattico degli studenti del Centro sperimentale di cinematografia, condotto da Daniele Segre, decano del cinema del reale, quello sociale, soprattutto, delle emergenza e delle lotte. Allievi del secondo anno dei corsi di sceneggiatura, regia, montaggio e suono che nel luglio del 2013 sono entrati nel complesso penitenziario fiorentino di Sollicciano, all’inizio «solo» per documentare un concerto in carcere, ma alla fine talmente carichi di storie ed umanità da raccontare che il girato ha preso il sopravvento sul progetto iniziale. Così è nato Sbarre, uno dei documentari coprodotti da Rai Cinema per raccontare le Storie d’Italia in rassegna alla Casa del Cinema di Roma (domani, sabato e domenica).
Già presentato allo scorso Festival di Lecce, Sbarre è uno scioccante viaggio tra le esistenze sospese di detenute e detenuti. Camera fissa, primi piani e microfoni aperti sulle loro storie. Uomini e donne chiusi per 22 ore al giorno in celle minuscole da dividere in tre. Dove il tempo è il principale nemico. «Abbiamo tre calendari, uno ciascuno, anche se facciamo finta di non vederli. E la domenica dura un mese». Qui le «percezioni - dicono - sono tutte amplificate». E la tensione è sempre alle stelle. C’è chi racconta di aver pensato subito al suicidio, appena entrato. Chi dice di aver rinunciato ai colloqui coi familiari perché al momento del saluto è «come se mi strappassero il cuore». Chi denuncia condizioni igieniche folli, coi liquami delle fognature che gocciolano regolarmente dal soffitto. Chi spiega che in quel lavabo per tre persone ci si lavano «piatti, piedi e sedere». E tutti, proprio tutti, che dicono di «vivere come le bestie». Chiusi in gabbia 22 ore al giorno. «Basterebbe che ci facessero uscire un po’, magari solo per andare a parlare con quelli vicini perché le tensioni calerebbero», spiega un ragazzo. Ma qui a Sollicciano è così. Un ecomostro di cemento, diviso in cubi dalle alte feritoie, dove l’unica possibilità di comunicazione è il «panneggio»: gli uomini e le donne, richiusi in «bracci» frontali, «parlano d’amore» attraverso questa sorta di linguaggio morse fatto con gli stracci. «La prima volta si scambiano i nomi - racconta una detenuta - la seconda già si dicono di amarsi, la terza già progettano di fare figli. Qui in carcere si vive in un mondo assurdo dove non esiste più nessun rapporto con la realtà normale». Anche per i secondini del resto. E sono gli stessi carcerati a dirlo: «Le guardie fanno un lavoraccio. Noi siamo qui per un po’ di anni ma loro sono detenuti a vita».
Tutti, dunque, dietro alla «sbarre» pagano il prezzo di un’istituzione che, mai come oggi, appare sempre più inumana e superata. Il primo ad esserne convinto, per esempio, è proprio Fabio Cavalli che in carcere ci «vive» per scelta. Da anni, infatti, è alla testa del laboratorio teatrale di Rebibbia, a Roma, dove è nato Cesare deve morire dei fratelli Taviani, vincitore della Berlinale e punto di partenza di una «nouvelle vague» di cinema sul carcere. «Io sono un abolizionista convinto - spiega Cavalli - e sono certo, come sta accadendo in Nord Europa, che il carcere si estinguerà». Ma nel frattempo non resta che affidarsi al potere «salvifico» del teatro. Basta guardare ai numeri: «La recidiva tra i carcerati è del 65% - spiega - ma tra coloro che fanno attività teatrale scende al 6%. Se il teatro non fa più delinquere, dunque, andrebbe somministrato in dosi massicce. E varrebbe la pena a questo punto riflettere sul ruolo della cultura nella società». E magari in questa direzione, perché no, va anche la rassegna Storie d’Italia, una manciata di doc per analizzare le urgenze del nostro contemporaneo. Il 6 giugno sarà la volta di Fighting Paisanos di Marco Curti (la Liberazione vista attraverso gli occhi di giovani soldati italo-americani); il 13 giugno, L’occupazione cinese di Massimo Luconi sulla comunità cinese a Prato; il 20 giugno, Il pane a vita di Stefano Collizzoli sulla fine del posto fisso e il 27 giugno chiude la rassegna Mie care mamme, miei cari papà di Viviana Di Russo sulle famiglie arcobaleno.