Francesco Battistini, Sette 25/5/2014, 25 maggio 2014
L’UOMO CHE VIAGGIÒ IL MONDO CON UN PASSO LEGGERO
Fu un addio con un Dio che stava lì solo per bellezza, come una ceramica Sung o un bronzo del Benin: a Chatwin non era mai importato molto, di Dio. Fu una cerimonia funebre in una basilica greca di Chelsea, più che altro per una ragione estetica: a lui piaceva la liturgia ortodossa e nei mesi della malattia s’era aggrappato ai monaci del Monte Athos, stringeva sempre una pergamena con una preghiera all’Arcangelo Michele. Detestava l’orrido Papa, spiegò l’amico Gregor Von Rezzori, «e tutto sommato i pope erano la cosa più vicina a Sotheby’s che si potesse immaginare». Furono tanti i necrologi sui giornali: a pochi era capitato di diventare una leggenda in così poco tempo: «Sembra quasi», commentò James Lees-Milne, «che sia morto Byron».
Non fu pronunciata orazione funebre, invece. Solo giaculatorie incomprensibili. Tonache nere. Incensi. Cori. Nessuno che citasse la scena finale delle Vie dei canti – i tre vecchi aborigeni che «stavano bene, sapevano dove stavano andando e sorridevano alla morte sotto l’ombra di un eucalipto…» – o magari le lande nigerine che a Bruce ricordavano l’aldilà: «Campagna piatta, coltivazioni di miglio, steli color del grano nella terra. Mi trovo ad apprezzare le terre prosciugate. Mi si addicono. Siamo complementari…». Nessuno poi che accennasse all’Aids: «Negli anni Ottanta, ammettere d’averlo era davvero dura», si sarebbe confidata un giorno la moglie Elizabeth che per una vita ne aveva sofferto la lontananza fisica, non gli amanti. «La stessa parola Aids», scrisse Chatwin, «è uno dei neologismi più crudeli e stupidi del nostro tempo: “Aid” significa aiuto, eppure basta l’aggiunta d’una sibilante per trasformarla in un incubo…».
I giornalisti vennero, ma non per il morto. Un’ora e mezzo prima della cerimonia, la radio aveva dato notizia della fatwa di Khomeini contro I versi satanici, e quel funerale dell’amico fu per molto tempo l’ultima uscita pubblica dello scrittore Salman Rushdie che testimoniò: c’eravamo conosciuti ai festival letterari, avevamo attraversato insieme l’Australia, gl’invidiavo l’idea di leggere i sentieri come uno spartito, “tanti spaghetti d’Iliade e d’Odissea”, e in fondo era un gipsy scholar, uno zingaro erudito… «Sotto il sole, Bruce mi parlava di tutto. Continuamente. C’impantanavamo in futili discussioni: che cosa arrivò prima, l’urgenza di narrare o l’urgenza di possedere? L’immaginazione o il senso del possesso? L’uovo o la gallina? Io ascoltavo, Bruce parlava. Logorroico. Sono una persona che discute volentieri, ma in sua compagnia non riuscivo quasi a infilarmi nel discorso. Ero fiero delle mie interruzioni».
Che ci faceva qui? Un quarto di secolo fa, lo zingaro erudito e chiacchierone si fece la domanda definitiva: che ci faccio qui? E attraversata per 48 anni la terra col passo leggero dei nomadi, zitto zitto se ne andò. Malato. Precoce. Subito mitizzato: nel 1989, chatwiniano era già diventato un modo d’essere. Assieme a thatcheriano, l’unico aggettivo memorabile di quell’Inghilterra, eredità d’uno scrittore che peraltro detestava aggettivare. Vestivamo alla Chatwin e alla Chatwin rivestivamo il nostro mondo di viaggiatori sognanti. Imparammo un po’ tutti a farci una buona bisaccia e a partire, come raccomandava lui, «nella convinzione che camminare non sia semplicemente terapeutico per l’individuo, ma sia un’attività poetica che può guarire l’umanità dai suoi mali». Un’indiscutibile estetica guidava la sua etica, osservò Masolino d’Amico. E quell’estetica modernissima, rivoluzionaria, mai nostalgica fu per venticinque anni replicata, tatuata, portata a spasso tanto dai turisti all inclusive, quanto dai viaggiatori affezionati alle scomodità. Chatwiniani: lo diventarono i calzoncini kaki e gli scarponcini color miele della Russell Moccasin Company, le giacche verdi e le sahariane, ma pure le cravatte di seta a pois e i loden blu tagliati a poncho. Gli zaini di vitello scuro con le tasche disegnate da un sellaio di Cirencester, apposta per infilarci una scatola di sardine e una mignon di Krug. Il binocolo d’acciaio donato da Werner Herzog e la Mont Blanc con l’inchiostro indaco. Gli stivali legati al collo e le matite temperate al coltello. Chatwiniano è ancora il taccuino di cerata nera con l’elastico: il Moleskine che lui comprava solo in una papeterie parigina di Rue de l’Ancienne Comédie e chiunque, oggi, può trovare in una delle 14mila rivendite nei 53 Paesi che lo commercializzano. Un marchio globale fabbricato in Cina, quotato in Borsa. Un feticcio di carta nell’era digitale. Il mezzo che molti Bruce immaginari ancora confondono col messaggio. «M’imbarazza sempre incontrare qualche rappresentante della numerosa tribù che studia da Chatwin», ha detto l’editore Roberto Calasso, che gli fu amico e fra i primi a tradurlo: «È il caso più rapido di leggendarizzazione d’uno scrittore che ci sia stato in questi anni». Mi scrivono soprattutto gl’italiani, ha raccontato la vedova, e mi chiedono cose strane: «Un po’ irritanti, anche: che cosa mangiava? Quante ore camminava? La sua Asia non era quella degli hippy e degli itinerari spirituali...». Ci sono agenzie che organizzano viaggi stile Chatwin in Patagonia. Ci fu un turista in Grecia che rimorchiava avventure facili facendosi passare per Bruce: passò brutti momenti, quando lo scoprirono. E quante riviste d’arredamento hanno abbinato le sale di legno opaco ai manti d’armadillo, le lenzuola dei re hawaiani alle tavole d’altare Ming, i futon alle stuoie di piume peruviane. Una famosa foto con lo zaino, che gli fece lord Snowdon, è replicata su tazze e magliette più del Capote fra le piante tropicali, dell’Hemingway in piedi alla macchina per scrivere, del Montale con l’upupa o dell’Oscar Wilde col bastone e la redingote…
Biondo era e bello. «Fosse stato grasso, miope e coi capelli color topo, avrebbe avuto una reputazione molto diversa» (la biografa Susannah Clapp). Probabile. Anche se l’estetica non spiega da sola tanta fascinazione universale. E l’anatomia della sua irrequietezza va studiata sotto i mille vestiti da esploratore, antropologo, archeologo, paleontologo, giornalista, esperto d’arte, informatore dei servizi segreti, etnologo, cantastorie che riuscì a indossare. Nell’ottobre 2001, al confine dell’Afghanistan, Tiziano Terzani teneva in tasca il libro che Peter Levi aveva scritto nel suo viaggio con Chatwin: «L’unica compagnia tollerabile», spiegò, «viaggiare è un’esperienza che si fa bene da soli, il punto è scegliere con chi essere soli...». Ossimoro vivente – un gay che si sposò, un nomade legatissimo a Londra, il primogenito d’un piccolo avvocato di Birmingham che volle essere cittadino del mondo, collezionista di tutto e proprietario di nulla, austero ed eccessivo, solitario e socievole, indifferente alle scomodità nel deserto eppure pazzo per le vestaglie di seta, comodo col suo zainetto e talvolta accompagnato da bagagli che Murray Bail paragonava a quelli di Greta Garbo, cantore degli ultimi della Terra e intanto amico dei Guggenheim, laburista appassionato nel frattempo d’araldica… –, Chatwin era convinto che il suo cognome venisse da chettewynde, antica parola anglosassone che significa “sentiero tortuoso”, o forse dalla crasi di chat (chiacchiera) e twin (gemello): l’uno o l’altro, comunque un destino. All’asilo, aveva un amichetto immaginario col quale conversare. Alle scuole di Wellington e al Marlborough College si dedicava solo alle decorazioni floreali, al suo primo racconto (titolo: Sono una rondine) e al pitone che teneva in casa. Alla facoltà d’archeologia d’Edimburgo sperimentava qualche affetto. A 13 anni il primo viaggio solo con se stesso, in Svezia, e le cartoline e le lettere che per tutta la vita e da tutto il mondo non avrebbe smesso di scambiare: a volte dipinte da lui, perfino con francobolli immaginari (il suo intimo amico Donald Evans gliene dedicò uno, “vagabondo a piedi nudi”, da una favolosa “capitale di Vanupieds”), spedite dal Golfo Aranci o dai Buddha di Bamyan, indirizzate a James Ivory come a Calasso…
Reporter e avventuriero. Chatwiniano, Chatwin lo diventa una mattina del 1966: «Mi svegliai cieco: hai guardato i quadri troppo da vicino, mi disse l’oculista, perché non li sostituisci con vasti orizzonti?». Lettera di dimissioni da Sotheby’s, partenza immediata per il Sudan. La scusa della vista è perfetta: l’occhio brillante d’un esperto d’Impressionisti lascia a 26 anni lo stipendio da direttore e certi piccoli brividi – «che gusto dire alle persone che i loro quadri sono falsi!...», che paura quella volta che fregò i doganieri egiziani e francesi contrabbandando statuette e Cézanne arrotolati –, per trasformarsi nell’occhio assoluto sui fiumi turchesi della Cina e sulle croste di fango arancione della Mauritania, nell’avventuriero violentato al buio delle carceri ivoriane e nel reporter dentro l’India d’Indira, nel sovietologo e nel cacciatore di Yeti. Peripatetico, «scoprii che il viaggio non allarga la mente: la costruisce». Capì “l’orrore del domicilio”. Imparò a diffidare dell’esotismo “ipocrita e retorico”. «Decise di non cercare più gli oggetti rari», l’ha descritto Elémire Zolla, «ma luoghi impregnati ancora d’una certa aura, d’un arcano da conoscere e da rispettare». Chatwiniano, Chatwin lo diventa con l’amore per il racconto del reale, “più fantasioso del fantasioso”, lui che detesta Verne o Stevenson e piuttosto si ritrova dentro Steinbeck e Turgenev: «Non chiamatemi scrittore di viaggio, io non riporto impressioni: solo cose viste».
Cammina ore, prima di scrivere. Cita Pascal: «Notre nature est dans le mouvement». Ha le sue teorie: i bambini nomadi sono più sani di quelli stanziali, il nobile non è mai mobile e tutte le rivoluzioni, da Mao a Mosè, dal Mahatma a Mussolini, sono ricorse a grandi marce. Affitta stanze lontano da casa, deve concentrarsi sulla pagina: a Saratoga Springs per Sulla collina nera, in Nepal per Le vie dei canti, un po’ ovunque per Il viceré di Ouidah… Rifà i Grand Tour degli scrittori settecenteschi, si fa ospitare volentieri: «Certo che per essere un nomade ti fermi una quantità impressionante di tempo in uno stesso luogo!», lo prende in giro Teddy Millington-Drake, un po’ stufo d’averlo fra i piedi. Lo scrupolo dei dettagli è il suo modo di raccontare. Agli occhi degli ammiratori si rende credibile oltre ogni dubbio, ogni cecità. Quando stava a Stratford dalle zie zitelle, il piccolo Bruce esplorava una riva dell’Avon che aveva ispirato Shakespeare, certi versi famosi sul timo selvatico. Il ragazzino era andato avanti e indietro per settimane: aveva trovato gli anemoni e le violette, i castagni e i mirtilli, ma il timo selvatico proprio no. Com’era possibile? Conclusione: se perfino il Grande Bardo s’era concesso qualche invenzione, perché stupirsi che alcune pagine delle Vie dei canti somiglino un po’ troppo a quelle d’un antropologo australiano, che un regista abbia provato a farne un film perdendosi su false tracce, che gli stessi aborigeni dicano d’averci trovato cose imprecise? Anche Paul Theroux lesse In Patagonia e l’accusò d’essersi immaginato un bel po’. «Non ha mai detto una mezza verità», tentò una difesa Nicholas Shakespeare, suo biografo, «piuttosto una verità e mezza». Ma fu Bruce ad ammetterlo, in un momento di sarcasmo autodistruttivo: «Una volta ho fatto l’esperimento di contare una per una le bugie che avevo scritto sulla Patagonia: mica male…».
Incontro di civiltà. L’ultima casa di Chatwin è in un posto che si chiama Homer End. Un ritorno omerico. La fine che è l’inizio. Ci è rimasta Elizabeth, dopo il divorzio da Bruce. Tutta la sua buona educazione cattolica e newyorkese, tutti i suoi studi a Harvard, tutta la sua carriera fra i Rembrandt e i pezzi indiani di Sotheby’s l’hanno portata ad allevare pecore nere del Galles. Elizabeth pascola memorie, tosa le interviste. Ogni tanto, ripesca e pubblica qualche inedito. Uno degli ultimi è sulla diffidenza che ci provocano i nomadi: «Sono incivili», scriveva Chatwin, «e tutte le parole usate tradizionalmente nei loro confronti sono cariche di pregiudizi civili: randagio, vagabondo, instabile, barbaro, selvaggio ecc. I nomadi erranti hanno per forza di cose un’influenza disgregatrice, ma il biasimo di cui sono oggetto è sproporzionato al danno materiale che causano. Questo biasimo è razionalizzato e giustificato con una falsa pietà. I nomadi sono esclusi; sono dei reietti…». Qualche settimana fa, il sindaco di Roma ha vietato di chiamare nomadi i nomadi. Men che meno zingari. Dice che bisogna definirli camminanti. Chatwin, no: lui ha visto anche zingari felici.