Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  maggio 29 Giovedì calendario

IL DIO GRECO


C’è un dio Greco alla Procura di Milano. Mentre i magistrati si azzuffano sull’attribuzione delle grandi inchieste, litigano davanti al Csm e si dividono in fazioni, lui svetta su tutti per metafisico potere e per superiorità professionale: è quasi un’algida statua di Fidia piazzata lassù, in alto, sulle rovine del Partenone.
In realtà Francesco Greco, procuratore aggiunto e capo del pool reati economici e finanziari, è parte molto attiva nella guerra che da due mesi ha trasformato in trincea i corridoi al quarto piano del tribunale: con la sua audizione al Csm si è rivelato come uno degli avversari più tignosi di Alfredo Robledo, l’altro procuratore aggiunto che va accusando di parzialità e abusi vari il capo, Edmondo Bruti Liberati.
Il dio Greco però non si espone come un’Ilda Boccassini: non si fa notare, non alza la voce. Sì, è vero, ispira e firma il «manifesto» dei 62 sostituti favorevoli a Bruti e spinge per la sua riconferma alla guida della procura. Ma intanto ostenta il lavoro come strumento purificatore. E proprio mentre i colleghi intorno si scannano, lancia l’ennesima indagine «monstre» sulla fusione tra l’Unipol e la Fonsai dei Ligresti.
Una gioventù da extraparlamentare di sinistra, una maturità spesa dietro a tutte le più importanti inchieste finanziarie d’Italia, oggi (a 63 anni) Greco potrebbe essere davvero effigiato come copia moderna e solo lievemente appesantita di Ermes, l’alato e astuto dio degli scambi: perché anche lui nella corsa e nel dialogo si è rivelato un dio. Malgrado il fiato corto per le troppe sigarette, Greco è sempre in corsa per qualche nomina e pronto a dialogare con la politica. L’ultima gara l’ha ingaggiata per il posto di Attilio Befera all’Agenzia delle entrate, correndo contro Marco Di Capua, numero 2 dell’Agenzia.
Del resto, Greco da febbraio è il primo consulente fiscale del governo di Matteo Renzi sul «dossier Svizzera» per il rimpatrio dei capitali. Ma è dal lontanto 1998 che la politica lo insegue, lo corteggia, lo considera il terminale più adatto per interloquire con la Procura di Milano. All’inizio di quell’anno, mentre in Parlamento la commissione bicamerale pareva in dirittura d’arrivo sulla riforma della giustizia, il suo presidente Massimo D’Alema spedì Giuliano Amato, ministro delle Riforme, da Greco: voleva capire proprio da lui se i pm milanesi potessero condividere una «soluzione politica» alla stagione di Mani pulite. Si incontrarono più volte. Alla fine Greco, astutamente, disse che quella decisione «spettava al Parlamento». E cinque mesi dopo, in giugno, la bicamerale fallì.
Poi il magistrato si ributtò nei fascicoli giudiziari. In primo grado ottenne la prima seria condanna a 4 anni per Silvio Berlusconi nel processo sulla frode fiscale Mediaset, che il 1° agosto 2013 si è concluso con la sentenza definitiva che ha affossato giudiziariamente il Cavaliere.
Intanto di Greco e con Greco la politica si era rimessa a parlare, e molto, già nel 2005: in estate per le sue inchieste sulle parallele scalate all’Antonveneta e alla Bnl, e per quella dell’immobiliarista Stefano Ricucci alla Rcs; in dicembre per la voce che lo voleva successore di Antonio Fazio al vertice della Banca d’Italia. In quel periodo il pm si occupava del processo per il crac Parmalat, scriveva per il Sole 24 Ore e sosteneva che «il mercato finanziario italiano è il Far West dell’Occidente».
Da allora Greco è stato candidato ai più prestigiosi incarichi istituzionali in campo finanziario e tutti gli ultimi 5 governi, di destra come di sinistra, gli hanno affidato l’incarico di sovrintendere a qualche fondamentale riforma. Nel 2007, con Romano Prodi premier, il guardasigilli Clemente Mastella gli aveva consegnato il coordinamento di una commissione di studio per l’utilizzo delle risorse della giustizia, con l’obiettivo di riversare nei tribunali i 2 miliardi dei beni confiscati. Un amico gli aveva chiesto allora: «Ma come fai ad andare d’accordo, tu, con Mastella?». Greco aveva risposto: «Sono di sinistra, ma pragmatico. Se la giustizia oggi non dispone di un Giustiniano, mi va bene anche un buon vecchio democristiano».
Nell’estate del 2008 Giulio Tremonti, ministro dell’Economia del governo Berlusconi, lo avrebbe voluto al vertice della Consob, al posto di Lamberto Cardia: sul nome di Greco si era detto d’accordo anche Angelino Alfano, ministro della Giustizia. Poi non se n’era fatto nulla: Cardia era stato confermato fino al novembre 2010, per essere poi sostituito da Giuseppe Vegas, l’attuale presidente. Ma Greco era tornato in corsa già nel dicembre 2008, con Tremonti che insisteva a volerlo alla guida di Equitalia Giustizia, la società nata dal suo impegno con Mastella e chiamata a gestire le risorse sottratte ai condannati e alla criminalità organizzata. In quel caso Greco aveva rifiutato, forse perché aveva appena avuto in premio dall’allora procuratore Manlio Minale il diritto di essere «destinatario unico delle segnalazioni provenienti da Banca d’Italia, Consob, Ufficio italiano cambi e da tutte le autorità di vigilanza»: da allora il suo pool reati finanziari è un vero superpotere.
La politica è tornata a cercare Greco nel 2012, quando Mario Monti l’ha nominato presidente della commissione per la riforma dei reati fiscali e societari. Il pm ha consegnato il suo rapporto al ministro della Giustizia Paola Severino nell’aprile 2013, pochi giorni prima che a Palazzo Chigi s’insediasse Enrico Letta. Le sue proposte? Inserire nel codice il reato di autoriciclaggio; reintrodurre in pieno il falso in bilancio, attenuato nel 2002; accrescere le pene contro gli evasori. «Perché i blitz sono sacrosanti» dice Greco «ma rischiano di essere fumo negli occhi se non accompagnati da una seria riforma del contrasto all’evasione fiscale». Quelle idee erano rimaste in un cassetto ma Letta aveva affidato a Greco l’incarico di una proposta di legge sul rientro dei capitali esportati illegalmente, confermato da Renzi.
Perché Greco piace a sinistra? Perché di quella parte è sempre stato. Trascorsi giovanili nell’estrema più dura & arrabbiata (ai tempi di Tangentopoli esponeva sulla scrivania un ritratto di sé molto barbuto, molto capelluto, infagottato in un eskimo da battaglia), Greco è stato redattore di Mob, una rivista che alla fine degli anni Settanta era in prima linea nel contestare la legislazione antiterrorismo. Dal suo primo ingresso in tribunale, nel 1977, è stato vicino a Magistratura democratica, corrente di cui certo sottoscriveva «il rifiuto di un percorso gradualista che abbia come obiettivo la riforma del sistema capitalista».
Poi, con la vita e i processi, l’uomo si è moderato. Signorile nei modi come può esserlo il figlio di un ammiraglio napoletano, appassionato di vela e sci, Greco è stato un grande amico di Guido Rossi, il re degli avvocati d’affari con il quale per anni ha condiviso le vacanze alla Maddalena. In quell’isola, nell’estate 2008, Greco è stato fotografato seduto al bar in amichevole colloquio con Beppe Grillo. Nessuno ha mai svelato il mistero di quell’incontro, che però resta negli archivi come segno di un dialogo aperto anche con i 5 stelle.
Meno facile è capire perché Greco piaccia anche a destra. Da quelle parti, è evidente, lo si teme ma lo si stima. Forse per l’equilibrio da sempre esibito nel ricorso alla custodia cautelare: dicono che il 23 luglio 1993, alla notizia che Raul Gardini si era sparato in vista dell’arresto chiesto da Antonio Di Pietro, Greco abbia pianto. «Non sono mai stato un appassionato di galere e manette» avverte. Tremonti l’ha introdotto nell’Aspen institute, l’esclusivo circolo bipartisan nel cui esecutivo siedono Prodi e Gianni Letta, Fedele Confalonieri e Francesco Micheli. Lì, una volta, il pm ha tenuto un’applaudita lezione sul «rapporto perverso tra banca e impresa».
Anche nelle aule di tribunale, va detto, la lunga corsa di Greco ha incontrato rari ostacoli. Lo scorso ottobre la procura generale ha avocato una decina di processi per evasione fiscale, sui quali il suo pool aveva chiesto l’archiviazione: non era mai accaduto che a Milano l’organo di controllo si appropriasse di tanti procedimenti in un sol colpo.
La stessa procura generale un mese fa aveva chiesto l’assoluzione piena degli stilisti Dolce e Gabbana: uno schiaffo, visto che contro di loro Greco in primo grado aveva ottenuto una condanna a 20 mesi per evasione fiscale. Ma alla fine la Corte d’appello ha confermato la condanna. Perché, come dicono i suoi estimatori, Greco non sbaglia quasi mai. Come un dio.