Il Messaggero 29/5/2014, 29 maggio 2014
CINA, PROCESSO DI MASSA ALLO STADIO: IN SETTEMILA SUGLI SPALTI
IL CASO
PECHINO Almeno tre condanne a morte e centinaia di anni di prigione sono stati inflitti a 55 imputati nella regione cinese dello Xinjiang nel corso di un raduno di massa. Il processo, che ha risvegliato le memorie dei raduni delle Guardie Rosse negli anni duri del comunismo, si è svolto in uno stadio nella città di Yining davanti ad un pubblico di circa settemila persone, secondo l’agenzia Nuova Cina. Foto diffuse su internet che in seguito sono state cancellate mostrano camion di militari in tenuta anti-sommossa dai quali vengono fatti scendere gli imputati, che indossano le divise arancioni dei galeotti.
Gli spalti dello stadio sono gremiti di spettatori. Un dirigente locale del Partito Comunista Cinese (Pcc), Li Minghui, ha dichiarato che il raduno ha messo in evidenza la «risoluta determinazione» delle autorità a sconfiggere i «tre mali» e cioè, secondo uno slogan del Pcc, «il terrorismo, il separatismo e l’estremismo». Dagli articoli non risulta chiaro quale autorità abbia condotto il processo, nè se siano stati presenti avvocati difensori degli imputati. I media aggiungono che in un analogo processo collettivo la scorsa settimana sono stati condannati alcune decine di imputati.
LE ACCUSE
Inoltre, è stato annunciato che altre 65 persone sono state arrestate e che verranno giudicate nei prossimi giorni. Gli imputati sono accusati di reati che vanno dal «terrorismo» al secessionismo all’appartenenza a gruppi terroristici. Le tre condanne a morte, secondo Nuova Cina, sono state inflitte a persone accusate di aver massacrato con «sistemi estremamente violenti» una famiglia di quattro persone. I resoconti non forniscono particolari sull’etnia dei condannati ma non ci possono essere dubbi che si tratta in grande maggioranza di uighuri, turcofoni e musulmani.
I processi di massa vengono dopo una serie di attentati attribuiti all’ala estremista degli uighuri, che secondo Pechino è legata all’internazionale islamica del terrore che ha le sua basi in Pakistan e in Afghanistan. I principali gruppi attivi nello Xinjiang, sempre secondo le autorità cinesi, sono il Movimento Islamico del Turkestan dell’Est (Etim) e Turkestan Islamic Party (Tip). Gli esuli uighuri, la cui rappresentante più conosciuta è l’ex imprenditrice Rebiya Kadeer, affermano che Pechino esagera ad arte la forza di questi gruppi per giustificare una politica di repressione e di genocidio culturale.
I NUMERI
Gli uighuri oggi sono circa il 40% dei venti milioni di abitanti dello Xinjiang, che nei decenni passati è stato meta di una massiccia immigrazione da regioni povere della Cina. Le relazioni tra gli uighuri e i cinesi di etnia han sono estremamente tese dal 2009, quando quasi duecento persone furono uccise nella capitale provinciale Urumqi in scontri a sfondo etnico. Da allora la regione è militarizzata ed è impossibile visitarla per osservatori indipendenti. Sono stati eseguiti migliaia di arresti e celebrati centinaia di processi nei quali sono state comminate decine di condanne a morte.
LA GRANDE FUGA
Migliaia di uighuri sono emigrati clandestinamente, o hanno tentato di farlo, raggiungendo vicini paesi dell’Asia centrale o sudorientale. Dall’anno scorso è stato un vero e proprio crescendo di attentati che, oltre alle principali città dello Xinjiang, si sono verificati in posti lontani come la capitale Pechino e Kunming, nel sud del paese. Nell’attacco più recente, che secondo la polizia cinese è stato condotto da almeno cinque terroristi suicidi, trentanove persone sono state uccise e decine sono rimaste gravemente ferite a Urumqi in un mercato frequentato dai cinesi han.