Vittorio Feltri, Il Giornale 29/5/2014, 29 maggio 2014
L’UOMO CHE HA SALVATO LA LEGA
Il motto era: «Si Salvini chi può». E la Lega, ridotta in fin di vita dal cerchio magico, dallo stile Belsito e da una serie di errori (orrori) di cui parleremo anche più avanti, è risorta. Perfino in politica non mancano i miracoli. A compierli è stato il nuovo segretario, Matteo Salvini, che al massimo sembrava idoneo a gestire la mensa della Berghemfest, la quale - ammetto per dimostrare che non l’ho mai disprezzata - ho spesso frequentato.
I lettori ricorderanno l’operazione «netà fo’ ol polèr»,ovvero il passaggio del timone padano dal vituperato Umberto Bossi, logorato più dalla malattia che dal potere, a Roberto Maroni, tra i migliori ministri della compagine governativa di Silvio Berlusconi. Erano giorni difficili. I quotidiani scrivevano delle malefatte attribuite ai vertici delle camicie verdi: investimenti balordi in Africa, acquisto di diamanti e frescacce simili. L’intervento della magistratura stimolò la stampa a romanzare attorno al bullismo del Carroccio, a enfatizzare le marachelle delle gerarchie leghiste, a illuminare di ridicolo le prodezze universitarie del Trota filoalbanese eccetera eccetera. Dalle stelle alle balle, il passo fu breve. Intervenne il governatore della Lombardia, ottimo saxofonista e discreto pianista, e le suonò a tutti, inclusa la famiglia del Senatùr nonché fondatore del movimento antiterrone, poi declinatosi in modi stravaganti. Il simbolo della nettezza maroniana si rivelò azzeccato: la scopa. Con la quale fu in effetti ripulito il pollaio. Ma le prospettive di un rilancio della Lega non erano buone. Ormai Alberto da Giussano aveva perso ogni appeal: fallita la secessione, fallito il federalismo (non solo quello fiscale), andata a ramengo la presunta diversità dei nordisti, usi a gridare«Roma ladrona»(poi però giudicati ladroni essi stessi), su che cosa avrebbe potuto puntare Maroni onde creare una buona motivazione per indurre il popolo a votare ancora Lega? Il sol dell’avvenire funziona finché brilla in ciel, ma quando è tramontato, addio sogni di gloria. Insomma non c’erano le condizioni per un risorgimento leghista. Tutti - noi compresi erano in attesa che il capo (o i capi) annunciasse la data del funerale verde.
Ma ecco la svolta. Maroni rinunciò al ruolo di segretario e indisse elezioni interne per nominarne uno in grado di dedicarsi alla rinascita (pareva illusoria) del partito. La disputa fu vinta da Salvini, ragazzo sveglio, intelligente, liceo classico, una grinta della madonna, animato da una voglia fuori dal comune di dimostrarsi all’altezza delle aspettative padane. Sulle prime pochi lo presero sul serio. La scelta in effetti era caduta su di lui per disperazione. Nel senso che non c’erano alternative. Guardammo a Salvini con compassione: povero ragazzo, annegherà, ma gli daremo una mano affinché rimanga a galla il più a lungo possibile. Gli suggerimmo uno slogan volgarissimo: noi lombardi abbiamo insegnato ai meridionali a lavorare, e loro hanno imparato, qui a Milano, a sgobbare; loro hanno insegnato a noi lombardi a mangiare la pizza e a gettare i mozziconi di sigaretta a terra, e noi pure abbiamo imparato in fretta a farlo. Ma non sono queste sciocchezze ad avere portato in alto Salvini. Figuriamoci. Lui ha svoltato quando è riuscito a inventarsi una seconda edizione del sol dell’avvenire: l’antieuropeismo. Che paga in un Paese, il nostro, il quale dalla moneta unica ha ricavato solo miseria e sfiga. Non insisto nei dettagli. Salvini ha schiaffato nel logo leghista questa scritta: «No euro». Un trionfo. Inoltre egli si è messo a girare l’Italia come un ossesso predicando le (buone?) ragioni di Alberto da Giussano per stroncare la leadership europea, la cui negatività è evidente a chi abbia occhi non coperti da fette di salame. Facciamola breve. La linea di Salvini è stata vincente. Ha consentito alla Lega di recuperare consensi e di tornare ai migliori livelli bossiani.
I risultati delle consultazioni europee sono lì a certificarlo: 6 e rotti per cento. Una cifra lontana da Renzi e da Grillo, ma che, se esaminata limitatamente al Nord, costituisce un fenomeno storico. Ciò significa che, grazie al ragazzone milanese, il Carroccio ha ripreso a correre speditamente. C’è poco da sottilizzare. Salvini è un pazzo lucido sorretto dalla fede. Ha intuito che Marine Le Pen è il faro degli antieuropeisti e come diceva Pesaola quando allenava il Bologna - le ha«rubato l’idea».Le urne hanno dato ragione al Matteo meneghino.
L’Europa unita sarebbe un ottimo affare se essa fosse unita; invece è un coacervo di burocrati che fanno a gara per rompere i faraglioni ai Paesi mediterranei, per cui va osteggiata. Bisogna spingere affinché muti indirizzo. Altrimenti conviene sfasciarla, essa e la sua maledetta moneta unica.
Paradossalmente, Salvini, avviatosi in politica quale retrogrado delle piccole patrie, si è trovato all’avanguardia nel combattere il Quarto Reich, dato che la Germania, senza l’appoggio della Francia (in mano alla Le Pen) e dell’Inghilterra, non avrà più facoltà di dettare legge nel Vecchio Continente. Col suo 6 e rotti per cento, Salvini si piazza in prima fila nell’affrontare il futuro. Abbiamo un solo rimprovero da muovergli. Lasci stare l’ex ministro Elsa Fornero. Lei con gli esodati non c’entra un corno. Non è colpa sua se adesso sono allo sbando. Ella si è fidata delle informazioni fornitele dal presidente (oggi ex) dell’Inps, Antonio Mastrapasqua, quello dei 20 incarichi pubblici. A chi altro la signora avrebbe potuto chiedere lumi? Dài Matteo, fa minga el pirla.