Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 29/5/2014, 29 maggio 2014
LA COLLANA È L’ALTER EGO DELL’EDITORE
Leggere la storia dell’editoria italiana attraverso le sue collane significa individuarne le linee di tendenza politico-culturali, i programmi, le ideologie. Perché tradizionalmente nelle collane si coagula un progetto, sia pure ampio e a volte contraddittorio. Diciamo che le collane editoriali rendono riconoscibili le intenzioni di una casa editrice. Certo, poi è anche vero che esistono collane-contenitori molto vaste ed esistono serie più mirate e uniformi. Il saggio di Gian Carlo Ferretti e Giulia Iannuzzi, Storie di uomini e libri , appena uscito per minimum fax (pp. 318, e 13), è dunque più che una storia dell’editoria italiana, è una storia delle idee editoriali. Perché passando in rassegna le collane si entra nel vivo della creatività (e delle responsabilità) di un editore. Lo dicono bene i due autori nella prefazione, quando segnalano che: «Dagli anni Settanta-Ottanta perciò la politica e il discorso di collana e la funzione-collana stessa, coerenti con una consapevole idea di cultura e di letteratura, si avviano a una crisi irreversibile nel quadro di una serie di profonde trasformazioni (e anche involuzioni) dell’editoria libraria: il passaggio in particolare da una politica d’autore formativa nella prospettiva del catalogo e della durata, e della (reciproca) fedeltà e appartenenza autore-editore, alla ricerca estemporanea di questo o quell’autore, con una diffusa tendenza al nomadismo, e a una politica di titolo nella prospettiva della stagione e del mercato». È un fenomeno che Roberto Calasso ha chiamato «obliterazione dei profili editoriali». Ciò non toglie che alcune collane sopravvivano ancora, fieramente fedeli ai propositi originari.
La «collanologia» è stata per decenni la scienza (quasi) esatta degli editori cosiddetti di cultura. Di quella disciplina alchemica, il direttore commerciale storico di Einaudi, Roberto Cerati, fu il più autorevole depositario. Prima veniva la collana cioè l’Idea, poi, eventualmente, il libro da collocare nella serie, con la consapevolezza che ogni titolo è in colloquio con quello che viene prima e con quello che viene dopo e questi con tutti gli altri. Se le scelte di Ferretti e Iannuzzi non fossero orientate più sulla letteratura, nel loro libro il «Nuovo Politecnico» ideato nel 1965 da Giulio Bollati avrebbe avuto una posizione predominante: l’intenzione era quella di prendere di petto il presente, incrociando scienza e umanesimo. Ne vennero fuori, nel giro di pochi anni, autori destinati a rimanere nella discussione culturale: Bobbio, Boulez, Lacan, Lukács, Gombrich, Carr, Horkheimer, Chomsky, Basaglia, Sontag, Todorov, Marcuse, Cooper, Laing, Propp, Barthes, Foucault... Libretti agili, copertine bianche con una quadrato rosso al centro. Indimenticabili i titoli, come la grafica. Altri tempi? Altri tempi, tempi di strutturalismo imperante anche nel concepire il lavoro editoriale: la parte era il tutto e viceversa.
Fatto sta che alcune collane sono entrate nella memoria di ogni italiano colto con il privilegio di un nome-chiave capace di evocare il prestigio dell’insieme: la «Bianca» era appunto (ed è ancora, per pochi) la «Collezione di poesia» einaudiana: autori antichi, moderni e inediti, italiani e stranieri, nomi (quasi) tutti da capogiro. Oggi compie il mezzo secolo. Ma il libro di Ferretti e Iannuzzi parte da molto più lontano. Chi ricorda la «Biblioteca amena» di Treves, fine Ottocento, quando «le collane non rivestono ancora un ruolo forte come avverrà nei cataloghi della generazione editoriale successiva»: si tratta di collezioni dal carattere misto, dove possono confluire i bestseller contemporanei (De Amicis, Luciano Zuccoli, Neera), gli stranieri (Verne, Dickens, Zola, Balzac) e i classici. Impronta «generalista» che somiglia a quella di tante collane attuali: il confronto con il passato remoto vale anche per la concorrenza spietata tra editori e per l’imperio del mercato, che imponeva già allora strappi e rilanci economici per assicurarsi un autore di grido e che causava spesso tracolli irrimediabili (la Treves verrà ingoiata dalla Garzanti). È un filone che avrà nella «Medusa» (il massimo di qualità con il massimo di successo) il suo esponente più emblematico.
Per avere serie meno promiscue, dobbiamo ricorrere a esperienze come quella delle Edizioni di Solaria, che non a caso nascevano dalla famosa rivista omonima, tra gli ultimi anni Venti e i primi Trenta. Operazione raffinatissima, priva di pretese commerciali: tiratura dei singoli titoli tra le 500 e le 750 copie numerate. L’esigenza è quella di individuare e creare tendenze, pur nell’eclettismo: che è poi l’idea che detterà il sorgere di tante collane a venire. Pensate alla presenza concomitante di Svevo, Tozzi, Saba, Gadda, Vittorini, Ferrata, Quasimodo, Debenedetti, Loria, Pavese (180 copie dell’opera d’esordio Lavorare stanca , 1936): autori diversissimi selezionati dal duo Alberto Carocci-Alessandro Bonsanti per offrire un repertorio dei migliori giovani del momento, al di là delle poetiche.
Ecco, la collana in senso stretto si può intendere anche «solo» come l’estensione di una rivista militante. Per questo, spesso e volentieri richiede dei direttori che abbiano le idee chiare su ciò che vogliono e (soprattutto) su ciò che non vogliono. È l’epoca di quelli che Alberto Cadioli ha chiamato i «letterati editori», quando l’industria culturale era industria, certo, ma fondata su un progetto, anche quando il progetto è un genere (si pensi ai «Gialli» Mondadori e a «Urania»).
Tra missione e mercato, diciamo. Sicché a ogni nome di collana si può facilmente accostare il nome del suo artefice, intellettuale e funzionario insieme, qualcuno più intellettuale che funzionario, altri il contrario: si è detto del «Nuovo Politecnico» di Bollati, ma quelle che Ferretti e Iannuzzi mettono in rassegna sono la «Corona» (Bompiani) di Vittorini, la magnifica «Meridiana» di Sergio Solmi e Vittorio Sereni, i «Gettoni» (Einaudi) di Vittorini e Calvino, i «Meridiani» di Sereni, le «Silerchie» (Saggiatore) di Giacomo Debenedetti, i «Narratori» (Feltrinelli) di Giorgio Bassani, la «Fenice» di Bertolucci e poi di Raboni, fino alla «Biblioteca» e alla «Fabula» (Adelphi) di Calasso, che è oggi il caso più clamoroso di letterato-editore a tutto tondo, nel senso che i due termini si fondono con un’armonia d’altri tempi.
Da segnalare che le collane adelphiane sono tutt’altro che rigorosamente profilate sul piano delle poetiche, eppure riescono a suggerire quell’idea di coerenza centrifuga o di dispersione centripeta che è il carattere peculiare delle migliori imprese editoriali. Se ne riconosce il marchio di fabbrica, ma si fa fatica a definirlo se si prescinde dall’identità grafica. Certo, bisogna mettere nel conto anche il gusto del suo artefice. Quello di Leonardo Sciascia, con la «Memoria» di Sellerio (il libro come «servizio che si può rendere alla società», ma con leggerezza e senza zavorre ideologiche didascaliche), ebbe il sostegno estetico del genio di Enzo Sellerio. Il gusto personale non manca neanche quando si tratta di progetti ben definiti nella loro materialità, come i «Centopagine» calviniani che prediligevano a priori il romanzo breve, il classico sì, ma anche il curioso e il dimenticato (la collana si inaugura nel 1971 con Fosca dello scapigliato Tarchetti).
In un momento come l’attuale in cui a soffrire sono soprattutto i tascabili, vale la pena di ricordare due nomi su tutti: Luigi Rusca, inventore della Bur, Mario Spagnol, che rilanciò gli Oscar. In una fase di dispersione autolesionista, varrebbe la pena citare le molte piccole imprese che continuano a fare della «collanologia» un argine all’indistinto: e/o, Iperborea, marcos y marcos, Archinto... In un momento come l’attuale in cui sono in caduta libera le collezioni di poesia, vale la pena citare Vanni Scheiwiller, che disse in varie occasioni: «Avrò più collane che libri». Una battuta scherzosa, ma non lontana dal vero.