Massimiliano Castellani, Avvenire 29/5/2014, 29 maggio 2014
QUANDO IL CHE FACEVA L’ALLENATORE. IL CT BERRUTO SCHIACCIA TUTTI
Se il campione dello sport tenta di sconfinare nel campo delle lettere, il risultato molto spesso è assai deludente. Tranne un paio di bestseller milionari, Open di Andre Agassi (anzi farina del premio Pulitzer J.R. Moehringer) e Io Ibra (biografia di Zlatan Ibrahimovic redatta dallo scrittore svedese David Lagercrantz), tutto il resto è noia, anche per il lettore più sportivo, e noie, per i librai. Le ultime “biopallonare”, quella dell’allenatore dell’Inter Walter Mazzarri (il cui titolo è quasi una minaccia: Il meglio deve ancora venire, Rizzoli) e il cartesiano Penso quindi gioco (Mondadori) del regista azzurro Andrea Pirlo, non soddisfano neppure i loro più fedelissimi sostenitori e in quanto a successo di pubblico c’è chi ha scritto di «cinque copie vendute». Aggiungiamo alla cifra pure tre zeri in più, ma si tratta comunque di libri stradistribuiti e strapubblicizzati fino all’ultimo autogrill. Mentre non si parla abbastanza dell’unica vera rivelazione editoriale frutto della creatività di un asso dello sport: il ct della Nazionale di pallavolo Mauro Berruto.
Appena terminato di leggere il suo Independiente Sporting (Baldini&Castoldi, pagine 198, euro 13,00), si ha davvero la sensazione che Osvaldo Soriano sia tornato tra noi, a deliziarci con le sue trovate da bracconiere di storie. Sorpresi ma non troppo di questo splendido debutto narrativo, perchè Berruto è un uomo che sa pensare con le mani del pallavolista e anche con i piedi dell’appassionato di calcio (cuore Toro), ma soprattutto sa giocare finemente di testa e di pancia. «Questa è una delle tante storie che dimostrano che lo sport può cambiare il mondo», avverte alla prima pagina del romanzo che rimanda al sorianesco pilastro Triste, solitario y final di cui abbiamo appena celebrato il quarantennale della prima edizione italiana della Vallecchi.
Mentre Soriano, da fuoriclasse insuperato del genere, mesceva mate con storie di rigori più lunghi della storia, allungandole con le biografie picaresche di Chandler, Stanlio e Gardel, Berruto è un fine tessitore di destini anonimi. Quelli dei nostri emigranti del secolo scorso, diretti verso “la Merica” che si intrecciano con le leggende: Ernesto “Che” Guevara e il Grande Torino. Documentandosi e seguendo per anni la scia polverosa dei guevariani Diari della motocicletta, il coach-narratore ritrova Ernesto e il suo amico fraterno, Alberto Granado, nel piccolo paese colombiano di Leticia. Un microcosmo di campesinos e militari che amano e giocano un calcio lento e perdente, come le loro esistenze incanalate lungo il corso del Rio delle Amazzoni. Vite di frontiera – Leticia è incastonata tra il Brasile e il Perù – che vengono scosse dall’arrivo del carismatico Ernesto, che si improvvisa allenatore di calcio preconizzando un futuro Helenio Herrera o José Mourinho. Un motivatore in grado di trasformare la peggiore squadra del mondo in un gruppo vincente. Alberto lo aiuta giocando all’attacco e meritandosi il titolo sul campo di “Pedernerita” (omaggio alla memoria del grande attaccante argentino Adolfo Pedernera). «Prima di tutto bisogna avere una grande difesa», ammonisce il “Che” catechizzando i giocatori dell’Independiente. Una squadra che intese forgiare pensando al Grande Torino, l’undici più forte del mondo quando scomparve a Superga il 4 maggio 1949. Poesia tragica di un calcio che regala la felicità a un bambino italiano, “Jorge” che, dopo aver perso la mamma e le sorelle – durante il viaggio verso Buenos Aires – ritrova il sorriso calciando «un pallone di cuoio marrone come il cioccolato e cucito a mano».
È un calcio libero, romantico, di poesia, quello che pennella Berruto, il quale possiede il dono dell’uomo che sa nutrirsi, con la stessa sensibilità, di sport, del mito del “Che”, come dei versi di Neruda e di Alfonsina Storni. E per questo la sua opera, profondamente letteraria, schiaccia tutti i tentativi editoriali di colleghi, campioni dell’improvvisazione biografica.