Virginia della Sala, Il Fatto Quotidiano 28/5/2014, 28 maggio 2014
LA NUOVA FRONTIERA DEL FALSO: LE GRIFFE VENDUTE SU FACEBOOK
Navigando su Facebook si possono contare in Italia almeno un migliaio di falsi profili per la vendita di merci contraffatte dietro i quali si nascondono i social seller dei falsi. Vendo Moda, Griffe Mania, Giada imitazioni Stock, Il mio armadio, Armadio dei sogni: sono casalinghe, studentesse e giovani. Anche migranti che hanno deciso di abbandonare la strada. Usano Facebook per vendere borse, vestiti e scarpe. Creano profili con nomi inventati a cui si può accedere solo tramite richiesta di amicizia poiché il regolamento prevede che per scopi commerciali siano usate le Pagine. Filtrano le richieste e accettano quelle di potenziali clienti. Creano un mondo che, secondo chi racconta la sua esperienza dall’interno, può fruttare fino a 2.500 euro al mese. Su queste basi, il giro economico intorno ai venditori finali in Italia potrebbe arrivare ad almeno 25 milioni di euro all’anno.
Si tratta però di numeri ipotetici perché nessuno ha fatto un’analisi specifica, forse nessuno si è accorto del fenomeno anche perché i profili sono protetti da restrittive norme sulla privacy e i server del social network si trovano all’estero. “Interveniamo sulla base delle segnalazioni delle persone che usano il social network – spiegano da Facebook – e a seguito di attività costanti di controllo. Qualsiasi persona che pubblicizza oggetti e prodotti contraffatti è rimosso dalla piattaforma e può essere oggetto di provvedimenti legali”.
Gli utenti di Facebook, però, non avrebbero interesse a segnalare questi profili perché chi vi accede è spesso interessato all’acquisto e denunciare sarebbe controproducente.
Gucci, Louis Vuitton, Prada, Fendi, Hogan, Miu Miu falsi. Per una borsa il prezzo va dai 30 ai 300 euro. Gli album fotografici sono vetrine in cui si espone la merce, le chat sono zone protette in cui si realizzano accordi e ci si scambia i dati per pagamenti su carte prepagate e spedizioni. I clienti comprano confortati dai commenti degli altri utenti. E soprattutto acquistano consapevolmente merci contraffatte che ritengono essere di ottima fattura.
I venditori si riforniscono sia in strada che su Internet. Nel primo caso, trovano una piazza di spaccio e qualche fornitore privato. Nel secondo rintracciano i siti più convenienti, si destreggiano tra le descrizioni in cinese e decodificano spiegazioni spesso criptate.
“Non ho lavoro, così guadagno 1.300 euro” Raffaella ha 23 anni, il diploma di un istituto tecnico commerciale e si è stancata di cercare senza successo un lavoro nella sua città, in provincia di Napoli. Si siede davanti al computer e condivide sul suo falso profilo le foto scattate a Napoli, nella maggiore piazza di vendita delle firme contraffatte e delle repliche, di fronte alla stazione centrale e alle spalle della statua di Garibaldi. “Una volta a settimana – racconta – vado al mercato della Maddalena e compro quello che le mie clienti hanno ordinato. Ho 4.315 amicizie legate al commercio. Ricevo almeno ottanta ordini a settimana, mi faccio pagare sempre in anticipo e i miei clienti pretendono che le imitazioni siano perfette perché non vogliono sfigurare”.
Ogni giorno, dalle 8 alle 14, il quartiere della Maddalena si riempie di centinaia di bancarelle e gli ambulanti pagano il pizzo alla camorra per vendere la merce che gli stessi clan forniscono, proveniente dai laboratori di contraffazione napoletani o dalle importazioni asiatiche. Per la camorra, secondo i dati della Direzione Nazionale Antimafia, la contraffazione è il terzo settore di redditività dopo droga e racket.
Alta redditività, investimenti contenuti e un grado di rischio minimo lo rendono un campo di sicuro successo e “il Business delle mafie del futuro”, come si legge nell’ultimo rapporto Unicri (United Nations Interregional Crime and Justice Research Institute) che identifica il fulcro del settore nel clan napoletano Mazzarella e nella cosiddetta Alleanza di Secondigliano.
“È un problema che non dipende da me – dice Raffaella –. Non finirà solo perché smetto. Conosco madri che lo fanno per mantenere la famiglia. Un lavoro normale non si trova, i soldi non bastano per arrivare a fine mese. Così ci assicuriamo sempre almeno 1.300 euro mensili”.
Tra la strada e Internet, ci sono gli ambulanti. “Spesso – racconta Amoda, che è arrivato in Italia dalla Tunisia nove anni fa – invio le foto dei prodotti tramite Whatsapp alle ragazze che vendono su Internet, così non sono costrette a venire fino a qua. E poi fanno bene a vendere su Facebook, lì non ci sono gli stessi controlli che su Ebay ed è pure gratis. Sto pensando di farlo anche io, anche perché pagare alla camorra più di cento euro a settimana è troppo”.
“Compro cinese sul web e rivendo a casa” Incontriamo Arturo in un piccolo appartamento di Roma, dove studia moda e design e vive con altri due ragazzi. La sua camera è un museo di borse di ogni tipo. Una Balenciaga bianca sulla scrivania, una Fendi sulla sedia, Hermes sul letto e Vuitton sul sofà. Nel primo cassetto del comò ci sono portafogli, portachiavi, custodie per tablet e foulard. Apre l’armadio e tira fuori due scatoloni: ancora borse, accessori e scarpe. Il telefono squilla ogni dieci minuti e lui risponde, descrive la merce, comunica i prezzi. Ordina tutto sul web. Senza uscire di casa, aspetta che il corriere gli consegni i pacchi. “La merce che arriva dalla Cina è di qualità superiore a quella che trovi in strada – racconta - Le borse sembrano uscite da un negozio di via Montenapoleone, con busta, ricevuta e garanzia”. Unico limite di questo commercio virtuale è il rischio. Spesso per un ordine si aspettano anche settimane, i pacchi possono essere controllati alle dogane o arrivare difettosi. Il reso è complicato e ha tempi lunghissimi.
Arturo non si fa pagare in anticipo. Compra quello che gli piace, accoglie in casa sua i clienti e gli fa scegliere ciò che vogliono. Sa che non può succedergli niente, la quantità di merce che acquista non è paragonabile a quella dei grandi container della camorra e se i suoi pacchi fossero intercettati probabilmente non verrebbe fatta neanche notizia di reato data la ridotta quantità. Conosce un unico rischio: quello di non riuscire a vendere. Con i guadagni paga le tasse universitarie e, soprattutto, compra vestiti, scarpe e accessori originali. Ci mostra le sue scarpe di Armani autentiche, un orologio Cartier, un papillon Valentino. “Ogni sei mesi mi concedo un acquisto di lusso originale. Il mio armadio è uno scrigno di alta moda. Non importa se per coltivare questa passione devo fare una cosa illegale. Non uccido nessuno e grazie a me anche chi non ha abbastanza soldi può permettersi di sfoggiare oggetti firmati. Anche se io, i falsi, non li indosserei mai”.
Il contrasto su Internet, impresa difficile Il Cnac è il Consiglio Nazionale Anti Contraffazione, un organismo interministeriale nato nel 2010 sulla spinta del ministero dello Sviluppo economico per tracciare le linee d’azione nel contrasto al fenomeno. Tra i suoi tre obiettivi annovera la “lotta alla contraffazione via Internet”. Ma se stimare la vera entità del fenomeno è difficile nei contesti reali a causa della sua natura sommersa, indagare sui siti web risulta un’impresa quasi impossibile per la volatilità delle piattaforme e la loro provenienza estera. Controllare i social network, poi, non rientra nell’orizzonte investigativo. Impensabile intercettare singoli pacchi e spedizionieri poiché richiederebbe un dispiego di forze che Italia e Europa non possono permettersi. Facebook e il web restano terreno fertile per start up illegali di giovani che non trovano lavoro e casalinghe che non arrivano a fine mese.
“Cerchiamo di colpire il destinatario finale – racconta Edoardo Mazzilli, direttore dell’ufficio investigazioni Antifrode dell’Agenzia delle Dogane – e se ci accorgiamo che un sito ha già determinato l’importazione di merci contraffatte, allora ne chiediamo l’oscuramento. Una fatica inutile perché dopo cinque minuti lo stesso sito si ripresenta in una veste diversa per continuare a vendere. Il mondo di Internet è strenuamente difeso e viviamo al confine tra quella che è la sacrosanta libertà del web e chi questa libertà la sfrutta per fini diversi da quella per cui nasce”.
La conferma di quanto sia complesso inseguire chi vende merci contraffatte online arriva anche dalla Guardia di Finanza: “Svolgiamo una grande attività di monitoraggio – spiega Gennaro Vecchione, comandante delle Unità speciali della Finanza, a cui afferiscono il nucleo speciale tutela mercati e quello frodi tecnologiche –. Il problema è capire su quale server il sito è registrato, ovvero dove si trova la piattaforma fisica su cui il sito si appoggia. Se è in Italia, possiamo sequestrare e analizzare tutte le informazioni. Se però è all’estero, come nella maggior parte dei casi, possiamo fare poco. Al massimo reindirizziamo l’utente su un’altra pagina dove si spiega perché l’indirizzo è bloccato. Ma anche in questo caso ci sono tantissimi modi per aggirare l’ostacolo”. Un versante su cui si sta cercando di progredire: “Stiamo lavorando con la Cepol, l’organizzazione internazionale delle forze di polizia, e con il Parlamento europeo, per affrontare quella che è la sfida del futuro: riuscire a sequestrare e controllare i siti su server esteri”. Secondo i dati forniti della Finanza, chi compra prodotti contraffatti rischia sanzioni amministrative che vanno dai 100 ai 7.000 euro per i privati, oltre i 20.000 euro per gli operatori commerciali. Eppure il reato non è percepito. Dagli ultimi dati raccolti dal Censis su incarico del ministero dello Sviluppo, emerge che l’acquisto di prodotti contraffatti è un atto socialmente accettato per il 66,5% dei giovani tra i 18 e i 25 anni, intervistati nei mercati romani. È considerato “un illecito di lieve entità, che non merita una particolare attenzione da parte delle forze dell’ordine” e che serve a punire le grandi griffe che avrebbero prezzi poco accessibili. “In tribunale, poi, basta un buon avvocato – spiega Edoardo Mazzilli dell’Agenzia delle Dogane – e chi compra si può giustificare affermando che non sapeva che quella merce fosse contraffatta quando l’ha acquistata. Tanto più che non ha potuto vederla materialmente”.
Virginia della Sala, Il Fatto Quotidiano 28/5/2014