Pietro Del Re, la Repubblica 27/5/2014, 27 maggio 2014
NEL REGNO DI BOKO HARAM
CHIBOK
Sono arbusti tondeggianti, con poche foglie grigiastre ma irti di spine lunghe e affilate come coltelli. «Qui non ti avventuri neanche con un carro armato: bastano questi cespugli a proteggere gli uomini di Boko Haram», dice Mohammed, camionista di 28 anni, indicando la fitta boscaglia che ricopre ogni cosa, dai bassi crinali che si stagliano in lontananza alle gole e ai crepacci tagliati nel granito. L’inaccessibile foresta di Sambisa, migliaia di chilometri quadrati tappezzati di questa macchia taglientissima, un tempo riserva di caccia dei coloni inglesi, è diventata l’inespugnabile covo della setta islamica che la notte del 14 aprile scorso ha sequestrato nel villaggio di Chibok oltre duecento liceali, facendo scoprire al mondo le atrocità della guerra in corso in questa remota e poverissima regione del nord-est della Nigeria. «Le tengono nascoste là dentro, e soltanto noi possiamo salvarle perché siamo i soli a conoscere le insidie di Sambisa», aggiunge Mohammed, con un passamontagna calato sul viso nonostante il vento incandescente.
Lo incontriamo a Chibok, dove è venuto a reclutare uomini per una piccola milizia di autodifesa, composta di commercianti, allevatori e disoccupati esasperati dalla folle violenza di Boko Haram e dall’incapacità d’intervento dell’esercito nazionale. Alla periferia di questo malconcio agglomerato, in cui le case sono per lo più costruite con muri di fango e ricoperte da pezzi di lamiera, Mohammed ci porta a visitare ciò che resta del collegio delle liceali rapite cinque settimane fa. Con il tetto scoperchiato dalle bombe, i vetri infranti e i registri dati alle fiamme, più che dalla furia degli islamisti l’edificio sembra essere stato danneggiato da un terremoto.
In realtà, nessuno sa dove siano le liceali, né se le tengano ancora tutte assieme o divise in piccoli gruppi per nasconderle più facilmente. Secondo alcuni, Boko Haram le avrebbe portate oltre confine, in Camerun o nel deserto del Niger. Altri credono invece che le soldatesche islamiche se le siano già spartite come bottino di guerra, per sposarle o, più verosimilmente, per farne schiave sessuali. Come dice un generale del Pentagono, cercarle in questa regione equivale «a trovare un ago in un pagliaio». Ma quale miglior nascondiglio di una selva così ostile come quella di Sambisa, che comincia a infoltirsi fino a diventare impenetrabile soltanto a pochi chilometri da Chibok e che confina con le brulle montagne del nord del Camerun? È un’ipotesi che suggerisce un governatore locale, e che ha convinto alcuni consiglieri militari statunitensi inviati dal presidente Barack Obama a dar manforte allo sgangherato e brutale esercito nigeriano. Dice ancora Mohammed. «Se i sudditi della corona britannica andavano a Sambisa per sparare alla iena e al leopardo, noi daremo la caccia alle belve di quella setta maledetta».
Per il terrore di nuove rappresaglie, a Chibok nessuno parla con gli stranieri. Ma nonostante i ripetuti attacchi dei jihadisti, c’è ancora chi resiste, chi non è scappato verso Maiduguri, capoluogo dello stato di Borno. Non è così in molti altri villaggi, ormai interamente abbandonati, che incrociamo lungo le strade del feudo di Boko Haram, simili a piste sabbiose, un tempo trafficatissime ma oggi spaventosamente vuote. Ogni cittadina assaltata dalla setta islamista è come una piccola Dresda, dove la sofferenza si misura con lo sconcertante grado di distruzione delle case, dei mercati, delle scuole, delle chiese o delle moschee. In un villaggio contiamo decine di macchine bruciate, in un altro, di cui non riusciamo a trovare neanche il nome sulle mappe, le fiamme appiccate dai guerriglieri non hanno risparmiato una sola abitazione. «Attaccano sempre alla stessa maniera: incendiano le case, che sono spesso capanne e che quindi ardono come fiammiferi, e sparano all’impazzata contro la popolazione. Poi, razziano tutto ciò che possono». Solo la settimana scorsa, nello stato di Borno, hanno aggredito una mezza dozzina di villaggi, tra cui Shawa, Alagarno, Chukku, ogni volta uccidendo non meno di trenta persone, tutti civili. Ieri, l’ultima incursione: a Kamuyya, dove i terroristi hanno sparato sulla folla, falciando quaranta vite. A questi morti vanne aggiunte le centocinquanta vittime — quasi tutte donne — delle autobombe esplose martedì scorso al mercato di Jos, città al centro del Paese, alla cerniera tra la Nigeria musulmana e quella cristiana.
Boko Haram è nata nei quartieri soffocati dalla miseria e dalla disoccupazione di Maiduguri, città di più di un milione di abitanti. In quelle zone, dove la polizia non mette piede da anni, la setta può ancora contare su molti appoggi. Tuttavia, nel resto di Maiduguri i blindati dell’esercito pattugliano giorno e notte. Al contrario, i villaggi sperduti in queste desertiche praterie sono totalmente indifesi, e la nascita di squadre di vigilantes simili a quella di Mohammed ha reso i jihadisti ancora più crudeli. «Lo scorso anno, il presidente nigeriano Goodluck Jonathan ha decretato lo stato d’assedio nei tre stati (Yobe, Adamawa e Borno, ndr ) dove imperversa Boko Haram, inviando dal sud i suoi soldati più efferati, quelli che avevano combattuto e sedato la rivolta nel delta del Niger. Con quali risultati? Nessuno, salvo che adesso siamo vittime sia della spietatezza degli islamisti sia di quella dell’esercito», dice un anziano dallo sguardo affilato che incontriamo a Mubi. Il suo racconto dell’ultima incursione delle forze di sicurezza è un pugno nello stomaco. «I soldati hanno raggruppato una ventina di ragazzi, quasi tutti adolescenti, e li hanno poi fatti sdraiare a terra. Pochi minuti dopo ho sentito i colpi della mitragliatrice. Col pretesto che simpatizzavano con Boko Haram, li hanno ammazzati tutti. Tra di loro, c’era anche mio il mio nipotino. Ma perché lo hanno fatto? Perché?».
La conseguenza delle feroci rappresaglie dell’esercito è che la popolazione ha smesso di denunciare gli uomini di Boko Haram, e che parte di essa si è arruolata tra le fila della setta. I militari hanno allora creato milizie locali, chiamate “civilian joint task force”, il cui solo scopo è di incoraggiare la delazione. Ma temuti quanto esecrati, i militari nigeriani non sono più soli, perché da una decina di giorni sono accorsi nella capitale Abuja squadre di 007 da Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Cina e Israele. Riportare a casa le studentesse è diventata una battaglia globale. Tuttavia, il giorno in cui il nascondiglio delle studentesse dovesse essere individuato c’è il rischio che i generali nigeriani decidano unilateralmente di lanciare un’operazione avventata che non potrà risolversi altrimenti che in un bagno di sangue: com’è già accaduto in passato per altri ostaggi anche le liceali di Chibok verrebbero immediatamente freddate dai loro carcerieri.
Nonostante l’indubbia “cristianofobia” della setta islamista, questa non è una guerra religiosa tra cristiani e musulmani, perché nella maggioranza dei casi i carnefici sono gli estremisti salafiti e le vittime quei musulmani più moderati che a loro avviso non applicano la sharia con sufficiente rigore. In un Paese dove la crescita è da anni superiore al 7 per cento, che è diventato la prima economia del Continente nero superando un paio di mesi fa il Sudafrica, ma dove oltre la metà dei suoi 160 milioni di abitanti vive in povertà assoluta, i cristiani sembrano un bersaglio collaterale.
Come spiega l’ex capo di stato maggiore dell’esercito, il generale Martin Luther Agwai, la piaga Boko Haram non si risolve con le armi: «Il problema è politico, sociale ed economico. Se negli stati del sud del Paese il 90 per cento delle donne è alfabetizzato, in quelli del Nord la cifra scende al 5 per cento. E nelle università nigeriane solo il 10 per cento degli studenti proviene dai 12 stati settentrionali, dove la setta islamica recluta i suoi guerriglieri tra le legioni di giovani disoccupati ». Fatto sta che secondo Human rights watch dall’inizio dell’anno il bilancio degli attentati compiuti da coloro che il Nobel Wole Soyinka ha soprannominato i “macellai della Nigeria” supera i mille morti. «Non ne possiamo più di questi islamisti indiavolati, per questo abbiamo deciso di unirci», sbotta il camionista Mohammed. «Il nostro gruppo conta già 500 uomini e siamo determinati a liberare la nostra terra». Già, ma con quali probabilità di farcela?
Pietro Del Re, la Repubblica 27/5/2014