Luca Ricolfi, La Stampa 27/5/2014, 27 maggio 2014
PERCHÉ I SONDAGGI HANNO FALLITO
Dopo lo scossone elettorale di domenica, le domande che un po’ tutti ci facciamo sono almeno di due tipi.
Prima domanda: perché tutti i sondaggi hanno clamorosamente sbagliato la valutazione della distanza fra Renzi e Grillo, sopravvalutando Grillo e sottovalutando Renzi?
Seconda domanda: che cosa è veramente successo domenica?
La risposta alla prima domanda è sconcertante: a quel che sono riuscito a capire, diversi sondaggi circolati nelle ultime settimane non erano grezzi, ma erano corretti per tenere conto della débâcle sondaggistica del 2013, quando tutti gli istituti sopravvalutarono pesantemente il Pd di Bersani e altrettanto pesantemente sottovalutarono il Movimento Cinque Stelle di Grillo. Facendo tesoro dell’esperienza di allora, il risultato del Pd è stato più o meno scientemente addomesticato verso il basso, e quello di Grillo addomesticato verso l’alto. Peccato che, nel frattempo, l’elettorato pare aver scelto di ingannare i sondaggisti esattamente nella direzione opposta: nel 2013 diversi elettori intervistati dicevano di votare Bersani ma votavano Grillo, oggi diversi elettori hanno detto di votare Grillo ma in realtà hanno votato Renzi. Il fenomeno è noto, è stato studiato, e si ripresenta periodicamente soprattutto dalla metà degli Anni 90, ma nessuno è stato ancora in grado di individuare con sicurezza quando le risposte ai sondaggi distorcano le reali intenzioni di voto a favore di una parte politica e quando a favore di un’altra. Di qui un errore clamoroso, mai grande come in questa occasione: il vantaggio di Renzi su Grillo è stato di circa 20 punti, mentre la maggior parte dei sondaggi circolati in questi mesi pronosticavano uno scarto dell’ordine di 5-6 punti.
Ma perché gli elettori, questa volta, hanno finto di votare Grillo nei sondaggi e hanno scelto Renzi nelle urne? L’idea che mi sono fatto è che, in modo involontario ma diabolicamente efficace, tutti gli attori della scena pubblica, ovvero politici, sondaggisti e mass media, abbiano cooperato per creare la credenza in una possibile vittoria di Grillo. In questa direzione ha spinto la predizione, universale in Europa, di un clamoroso successo delle forze anti-euro e anti-sistema, una predizione che era naturale tradurre in un pronostico di sfondamento del Movimento Cinque Stelle, ovvero della forza più anti-sistema del nostro quadro politico. Ma nella medesima direzione ha spinto la demonizzazione del «pericolo Grillo» da parte dei media e delle forze politiche, una demonizzazione cui, negli ultimi giorni di campagna elettorale, ha dato un grande contributo Berlusconi stesso («Grillo mi fa molta paura, è un aspirante dittatore»). E infine, sempre in quella direzione possono aver agito le «mani avanti» ultimamente messe da Renzi, le cui dichiarazioni – io resto anche se vince Grillo – potevano suonare come segnali di un possibile successo del Movimento Cinque Stelle. In breve, nella testa di molti elettori si dev’essere formata la sensazione che Grillo davvero potesse vincere, e conseguentemente è scattato il consueto «effetto winner», ossia la tendenza degli intervistati ad adeguarsi al clima di opinione, esprimendo intenzioni di voto generose verso il vincitore annunciato e prudenti verso il possibile perdente.
Ma veniamo alla sostanza: perché Renzi ha stravinto e Grillo ha perso?
Qui non si può che andare per congetture. Con il senno di poi (ero fra quanti non escludevano un clamoroso successo di Grillo) mi pare si debba dedurre che, almeno in questo periodo, gli italiani preferiscano essere governati piuttosto che lasciati alla deriva. Grillo è perfetto per lo sberleffo, per la polemica anti-casta, per lo scetticismo sull’Europa, ma Renzi è riuscito a metabolizzarne molti messaggi, trasformandoli in messaggi positivi, dalla riduzione degli stipendi dei manager pubblici, alla vendita delle auto blu, all’intenzione di rinegoziare il patto europeo. Si poteva naturalmente pensare che gli elettori, fra la copia (Renzi) e l’originale (Grillo) avrebbero finito per preferire l’originale, ma evidentemente non è andata così. E’ possibile che l’elettorato italiano il proprio «vaffa day» in realtà l’abbia già celebrato e consumato un anno fa, alle politiche del 2013, ed ora stia cercando di capire chi può prendere in mano le redini del Paese. Se è così, la sconfitta di Grillo (e di Berlusconi) non può stupire, e la vittoria di Renzi si spiega semplicemente con l’assenza di antagonisti credibili, come in una partita di calcio in cui la squadra avversaria non si presenta in campo.
Non so se questa lettura sia giusta, o se invece sia troppo semplicistica. Ma se essa fosse sostanzialmente corretta, allora le conseguenze per Renzi e il suo governo potrebbero essere meno univoche di quanto il trionfo di queste ore indurrebbe a credere. Nel breve periodo, la vittoria alle Europee non può che rafforzare Renzi e l’azione del suo governo, rendendo implausibile la richiesta di andare a elezioni anticipate per verificarne l’effettivo consenso. Il «peccato originale» di essere andato al potere senza passare per vere elezioni ovviamente resta, ma dopo il voto europeo diventa difficile dubitare del seguito di Renzi nel Paese.
Nel medio e nel lungo periodo, invece, le prospettive del Pd di Renzi sono forse meno scontate. Il 40,8% può apparire un risultato storico, perché è la prima volta che il principale partito della sinistra, erede della tradizione del Pci, sfonda da solo la barriera del 40%, e pare far uscire la sinistra dal suo recinto storico, che l’ha sempre confinata entro il 33% dei consensi, una barriera che nemmeno Veltroni era riuscito a oltrepassare nel 2008. Uno sfondamento al centro che pare confermato dal crollo dell’area montiana (Scelta civica, ora ribattezzata Scelta Europea), passata nel giro di un anno dall’8,3% dei consensi a meno dell’1%, e presumibilmente confluita in gran parte nel voto al Pd. E tuttavia proprio il confronto con Veltroni, e prima ancora con Berlinguer, suggerisce una certa prudenza. In termini assoluti il numero di voti del Pd di Renzi (circa 11 milioni) segna un balzo rispetto al Pd di Bersani (meno di 9 milioni), ma resta al di sotto dei voti conquistati da Veltroni nel 2008 (12 milioni), e persino di quelli conquistati dal partito di Berlinguer nei due grandi exploit del 1976 (alle Politiche) e del 1984 (alle Europee, sotto l’emozione della morte di Berlinguer). E questo nonostante il corpo elettorale sia, nel frattempo, passato da 40 a 50 milioni di elettori.
Naturalmente è vero che l’incapacità di tornare ai 12 milioni di voti conquistati in quelle tre occasioni (1976, 1984, 2008) si deve innanzitutto al calo della partecipazione, che ha falcidiato il seguito di tutti i partiti, e non solo degli eredi del Pci. Il punto, però, è che nel 1976 votava comunista quasi 1 italiano su 3, mentre oggi vota Pd poco più di 1 italiano su 5. Per questo è ancora presto per parlare di un pieno e definitivo insediamento del Pd nel cuore della società italiana. Quello che è certo, per ora, è che fra chi si reca alle urne (meno del 60% del corpo elettorale, alle Europee di domenica) Renzi non ha veri avversari, specie quando si vota per scegliere un governo. Tutto sta a vedere se, quando si tornerà al voto, gli avversari di oggi saranno ancora privi di un programma convincente e di un leader credibile.
Luca Ricolfi, La Stampa 27/5/2014