Gianluca Di Donfrancesco, Il Sole 24 Ore 27/5/2014, 27 maggio 2014
MODI GIURA, L’INDIA ASPETTA LE RIFORME
Nel primo discorso da premier, il 20 maggio quando ha ricevuto la nomina a premier dal presidente Pranab Mukherjee, Narendra Modi ha trattenuto a stento le lacrime. Parlava ai colleghi del Bharatiya Janata Party, il partito nazionalista indù che ha trascinato alla conquista della Camera bassa del Parlamento. Ieri si è rivolto all’intera Lok Sabha e a 1,25 miliardi di cittadini del Subcontinente, dopo aver prestato giuramento.
Finita la fase delle celebrazioni e della commozione, Modi dovrà però dimostrarsi all’altezza delle aspettative delle centinaia di milioni di indiani che hanno votato il suo partito e gli alleati della National democratic alliance, consegnando al primo 282 seggi sui 543 in palio e ben 336 alla coalizione. Una maggioranza talmente ampia da lasciare senza alibi. Modi ha promesso di liberare l’economia dai vincoli che la relegano a eterna promessa mancata e di farla decollare, ha promesso che «il XXI secolo sarà il secolo dell’India». Ora dovrà mantenere l’impegno.
La frenata che ha dimezzato il tasso di crescita del Pil, inchiodato sotto il 5% da due anni, assieme all’inflazione attestata tra l’8 e il 9%, hanno eroso il potere d’acquisto degli 800 milioni di indiani che già vivono con due dollari al giorno (ma quelli che devono accontentarsi di 1,2 dollari sono 400 milioni). Come la Corporate India, frenata dalle carenze strutturali del Paese, questi diseredati vorranno vedere in fretta il segnale di una svolta. Hanno appena ridotto a una manciata di parlamentari il Congresso della dinastia Nehru-Gandhi, quella che ha retto il potere per 55 dei 67 anni dall’indipendenza, punendolo per non essere riuscito a traghettare il Paese fuori dalla povertà e verso il benessere. Non perdoneranno lo stesso errore a Modi.
Le agenzie di rating e la comunità degli affari hanno già accolto con favore il netto risultato elettorale che promette stabilità politica. Ora aspettano di conoscere la squadra di Governo e di vederne le prime mosse per prendere le loro decisioni. E magari di capire che piega assumeranno i rapporti con il governatore della Banca centrale, Raghuram Rajan: nominato meno di un anno fa dal precedente Governo nel pieno della crisi della rupia e della fuga di capitali, Rajan ha saputo ricostruire la credibilità della moneta sui mercati internazionali.
Così come l’elettorato, nemmeno investitori e agenzie di rating sono disposte a fare sconti: Standard & Poor’s ha già annunciato di essere pronta a declassare a "spazzatura" l’India se il Governo non sarà in grado di rivitalizzare la crescita.
In campagna elettorale Modi ha promesso regole più semplici per gli investimenti esteri, 100 nuove smart city e 250 milioni di posti di lavoro nei prossimi dieci anni (ma la vera svolta sarebbe creare posti stabili e ben retribuiti). Ogni anno 10 milioni di giovani entrano nel mercato del lavoro, per assorbirli serve una crescita del 7-7,5%. Per finanziarla bisognerà riordinare i conti pubblici e trovare risorse, introducendo una tassa sui consumi (Iva) e magari tagliando la spesa per i sussidi sui carburanti, che ormai costano 14 miliardi di dollari. L’aspettativa è che il Governo liberalizzi il mercato, lasciando salire i prezzi per incentivare gli investimenti e ridurre l’import, che copre l’80% dei consumi di greggio e il 30% di quelli di gas. I gruppi del settore hanno già visto volare le quotazioni di Borsa dal 12 maggio, quando gli exit poll hanno anticipato la netta vittoria del Bjp, con incrementi anche del 15%. Più complesso e ancor meno popolare sarà tagliare la spesa per i sussidi alimentari.
Un’altra grana sarà mettere mano al sistema bancario, stracarico di crediti inesigibili o in sofferenza. Ricapitalizzarlo potrebbe richiedere fino al 5% del Pil.
Sul tavolo del primo ministro arriveranno poi almeno 284 progetti d’investimento avviati e incagliati nella rete della burocrazia, per un valore complessivo di 255 miliardi di dollari, più del Pil della Grecia. Solo un quarto di questi progetti però è impantanato nei meandri dell’amministrazione centrale, il resto è ostaggio dei veti degli Stati autonomi in cui è suddivisa l’India. Per sbloccarli, Modi dovrà vincere le resistenze dei leader politici locali, anche loro severamente puniti dal voto, sulla concessione delle licenze a costruire e sugli espropri necessari quando si vuol realizzare un’autostrada o un parco industriale. Tra i progetti in attesa ci sono 76 centrali elettriche, in un Paese che costringe le imprese a dotarsi di generatori autonomi per continuare la produzione anche durante i lunghi e frequenti black-out. Nel 2012, 600 milioni di persone rimasero al buio per due giorni. Se in quasi 13 anni di Governo, Modi ha fatto del Gujarat un modello di crescita e di habitat favorevole alle imprese, il Bjp e i suoi alleati, hanno la guida in solo sei dei 29 Stati indiani.
Un cambio di passo sulle infrastrutture, però, sarebbe davvero strategico per rilanciare l’economia e frenare l’inflazione: il rincaro dei prezzi trova un propellente proprio nelle carenze che rendono difficile e costoso distribuire i prodotti.
I mercati per ora ci credono: dall’inizio dell’anno la Borsa ha guadagnato il 25%, irrompendo tra le 10 a più alta capitalizzazione del mondo. Con Stati Uniti ed Eurozona che avanzano adagio, la Cina che rallenta e l’intera Asia emergente che perde smalto, il ritorno di un’India rampante sarebbe una buona notizia per tutti.
Gianluca Di Donfrancesco, Il Sole 24 Ore 27/5/2014