Alessandro Plateroti, Il Sole 24 Ore 27/5/2014, 27 maggio 2014
IL RISPARMIO E LE URNE
La chiusura delle Borse anglosassoni per le celebrazioni del Memorial Day ha forse fatto mancare al balzo dei mercati europei la qualifica formale di rally post-elettorale. Ma anche con un po’ di liquidità rimasta ai margini, la sostanza dei fatti non cambia: il bisogno di «cambiamento nella stabilità» espresso domenica dagli elettori è il migliore degli scenari che potesse aspettarsi la Borsa dopo una campagna elettorale dominata dagli slogan populistici, dai proclami indipendentisti e dalle minacce dei movimenti anti-euro di ribaltare governi e istituzioni e soprattutto di abbandonare la valuta comune in caso di vittoria. Anzi, a ben guardare, i mercati sono stati proprio forse gli unici a non basarsi sui sondaggi e a valutare con lenti proprie il possibile scenario post-voto: invece di andare "corti" già da venerdì sulla base delle incognite del voto - a cominciare da quello italiano - gli investitori internazionali sono tornati a comprare bond e azioni della periferia dell’Eurozona, cioè dei mercati che più avrebbero rischiato di pagare il prezzo di uno strappo estremista, proprio alla vigilia del voto, scelta che alla prova dei fatti si è rivelata vincente. D’altra parte, al contrario dei sondaggisti le cui previsioni si basano prevalentemente sugli umori della piazza, le opinioni dei mercati si basano sui fatti. In questo caso, sull’enorme quantità di risparmio che gli elettori europei e soprattutto quelli italiani hanno investito negli ultimi sei mesi sulle azioni e sui bond denominati in euro: chi mai voterebbe per distruggere la valuta sui cui ha investito i propri risparmi e quelli per il futuro della propria famiglia? Lo si capisce leggendo l’ultimo bollettino di Epfr Global sui flussi nei fondi di investimento: dal documento emerge che, tra il 7 e il 14 maggio, quindi a pochi giorni dal voto, i fondi azionari e obbligazionari specializzati nel Vecchio Continente hanno registrato flussi netti per ben 3,61 miliardi, uno dei livelli più alti su basi storiche e un chiaro segnale di solida fiducia nel Vecchio Continente da parte dei risparmiatori. Non solo: da inizio maggio, la raccolta complessiva dei fondi che investono in Europa è stata di 11 miliardi di dollari sull’azionario, ai massimi da oltre un mese, mentre sull’obbligazionario il saldo è stato pari a 6,75 miliardi. Ciò è ancora più vero per l’Italia, dove gli slogan anti-euro di Beppe Grillo e della Lega hanno fatto presa nelle piazze, ma non a Piazza Affari: ieri Assogestioni ha comunicato infatti che la raccolta in Italia di risparmio da investire nel mese di aprile è stata da record, con un patrimonio in aumento di 7 miliardi alla quota mai raggiunta di 1.405 miliardi di euro. Anche se, ovviamente, la difesa dei risparmio investito non riassume tutte le ragioni che hanno spinto gli italiani a un voto di «cambiamento nella stabilità», come dicevano ieri gli analisti finanziari, è chiaro che gli slogan anti-euro hanno giocato una parte importante nell’atteggiamento responsabile e prudente che hanno assunto gli elettori. E forse, in questo senso, è proprio l’Italia che ha dato ieri più di altri Paesi in cui si è votato il carburante allo sprint delle Borse europee e dei Titoli di Stato periferici: la Caporetto del centro-sinistra europeista si è trasformata in una «Linea del Piave» contro l’avanzata populista, dando un segnale di fondamentale importanza non solo a livello politico interno ma anche per la Ue. Dal punto di vista dei mercati, infatti, il Paese con il debito più alto e potenzialmente più destabilizzante per le minacce anti-Europa del M5S, ha ora la possibilità di prendere la leadership nel necessario processo di revisione che l’elettorato si aspetta soprattutto nelle politiche di austerity. Non solo. Un Italia che puntella l’edificio europeo è anche il miglior alleato della Bce di Mario Draghi, da cui tutti ora si aspettano nuove misure di sostegno in termini di liquidità per le banche e più in generale per l’economia: e da questo, la Borsa, non può che vedere benefici. Una parentesi: ieri, dopo il trionfo anti-europeo in Francia della Le Pen, molti si chiedevano perché la Borsa di Parigi fosse in rialzo. Ebbene, la risposta è che la Francia potrà anche mettere in discussione la propria linea politica, ma nessuno può mettere in discussione il fatto che le aziende francesi, piccole o multinazionali, siano ancora tra le più forti del mondo e che i profitti da loro generati rappresentano la quota maggiore degli utili cumulati delle aziende europee. La Le Pen, insomma, può spaventare Hollande, ma certamente non spaventa chi investe. Passata l’euforia, comunque, sarà bene riflettere in fretta sul da farsi: non solo per quanto attiene le riforme in Italia, ma soprattutto a Bruxelles, dove hanno radici gran parte dei problemi che minacciano la tenuta dell’Europa. Insieme alle politiche per la crescita, l’Europa deve affrontare al più presto non solo la questione del super-Euro, insostenibile per le economie più fragili, ma anche l’abisso che divide i singoli mercati nazionali dei capitali, avvantaggiando le nazioni forti e penalizzando imprese e famiglie di quelle più deboli. In questo senso, il primo atto di responsabilità del nuovo Parlamento europeo dovrà essere proprio il completamento dell’Unione bancaria, operazione propedeutica a un riallineamento del costo del denaro in tutta Europa. Qui non si mette in discussione l’edificio europeo, ma le porte di accesso ai suoi forzieri per sostenere uno sviluppo armonico di tutte le imprese, a prescindere dalla loro nazionalità. Dalla crisi del debito siamo probabilmente usciti, ma dalla crisi del credito niente affatto: oggi solo il 7,5% dei finanziamenti bancari alle imprese industriali ha caratteristiche transnazionali e se un prestito di un milione a cinque anni costa il 3,5% a una piccola impresa tedesca, costa ancora il 5% a una spagnola e non meno del 5,5% a una italiana. Una forbice inaccettabile dopo il voto di ieri.
Alessandro Plateroti, Il Sole 24 Ore 27/5/2014